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Attività

Le sfide per le start‐up italiane e il mercato USA: capacità innovative, tecnologia, capitali

    • Roma
    • 15 Gennaio 2014

          Le start-up sono un elemento importante per aumentare la competitività economica dell’Italia. La nascita di imprese in settori fortemente innovativi non solo aiuta il rinnovamento del tessuto economico del Paese, creando nuove nicchie di mercato, ma offre anche opportunità ai lavoratori più giovani, fortemente penalizzati dalla crisi. Basta pensare che negli Stati Uniti, dove il tessuto di start-up è più vivace, il 90% dei nuovi posti di lavoro è creato da imprese che hanno meno di 5 anni di vita.

          Nonostante la situazione sia molto diversa rispetto a quella americana, anche l’Italia presenta alcuni punti da cui partire per incentivare la nascita di giovani imprese: la recessione, infatti, non è riuscita ad intaccare un bilancio netto, fra apertura e chiusura di aziende, che è ancora positivo. Rimangono, però, da colmare i ritardi che il Paese ha accumulato nel promuovere l’innovazione: nonostante una ricerca che si mantiene competitiva (e anzi offre costi più bassi rispetto ad altri Paesi europei), c’è la difficoltà a trasferire le nuove idee sul mercato e a farle crescere.

          Inoltre i passi avanti compiuti – anche a livello legislativo – per incentivare la nascita di nuove imprese, non sono ancora sufficienti: una start-up non ha bisogno solo della parte di avvio del business (lo “start” appunto), ma anche dello sviluppo (l’”up”). In questo senso, in Italia, è importante creare un ecosistema che favorisca la crescita di investitori istituzionali specializzati e faciliti l’uscita dall’investimento, vero passo per creare un ambiente vivace di venture capital che possa raggiungere una massa critica sufficiente. Del resto un buon sistema nazionale di early-stage, aiuterebbe le imprese nelle prime fasi, sostenendole nell’arrivare ad ulteriori round di finanziamento su base internazionale.

          Un circolo virtuoso del venture capital porterebbe, inoltre, avere investimenti ben strutturati e di successo: per scommettere sulle start-up, oltre ad un’adeguata dotazione di capitali, sono necessarie competenze specifiche e settoriali, visto che queste aziende coprono un arco di comparti diversissimi tra loro sia per tempi che per modalità di investimento. I venture capitalist, poi, devono essere non solo uomini di finanza, ma persone con capacità imprenditoriali: l’investimento nella crescita di un’azienda è quindi costituito non solo da risorse economiche, ma anche da competenze.

          Prendere spunto dal mercato americano (fra i più attivi in questo settore) e presentare agli investitori USA le imprese italiane, può offrire grandi opportunità, anche per la maggiore disponibilità di fondi dedicati che negli Stati Uniti esistono rispetto all’Italia e a molti altri Paesi europei. Inoltre, avere forti meccanismi di collegamento tra le nuove imprese italiane e le reti di azienda, i centri di ricerca e i venture capitalist americani, permette di innescare un circuito virtuoso che consente di mantenere competenze in Italia, mentre le attività aziendali vengono fortemente internazionalizzate, entrando in contatto stabile con un sistema più strutturato e competitivo.

          Per far conoscere le start-up italiane all’estero bisogna, quindi, sfruttare i punti di forza del sistema- Italia, partendo dal capitale umano, ed utilizzare gli strumenti che ci sono già a disposizione come i programmi internazionali di formazione e scambio. In questo campo è necessario ovviare al rischio di fuga dei talenti, creando un flusso regolare da e verso l’Italia di persone qualificate che faccia da veicolo per un sistematico trasferimento di know-how. 

          Tuttavia, per mantenere competenze e innovazione in Italia, è necessario anche un rinnovamento delle istituzioni che sia capace di mettere sempre più in comunicazione due mondi in passato distanti come università e azienda. Troppo spesso nelle università italiane manca un adeguato insegnamento delle materie legate all’imprenditorialità: insegnare ai giovani ricercatori ad essere anche imprenditori permetterebbe loro di ampliare gli orizzonti e fornirebbe tutti quegli strumenti, come la capacità di creare un business plan, che si rivelano fondamentali quando si vuole trasformare un’idea in un prodotto da vendere sul mercato.