Il 2024 è un anno elettorale chiave per l’Occidente e la notevole attenzione verso l’esito delle elezioni presidenziali americane, così come di quelle europee, segnala un cambiamento di paradigma. L’utopia della globalizzazione – l’ultima, la più estesa, ma anche la più breve fra quelle generate nel Novecento – ha lasciato il passo a un ritorno della politica. Tramontato rapidamente quel mondo globalizzato i cui processi sembravano governati dal mercato, gli Stati sono tornati centrali economicamente, militarmente e politicamente per cercare di affrontare le molteplici crisi in atto,
Altro che “It’s the economy, stupid”: il Fondo Monetario Internazionale denuncia il rischio di un decennio di stagnazione se non verranno messe in campo politiche per la crescita che siano coordinate a livello globale. Si tratta di una situazione in cui pesa il crescente scollamento fra finanza ed economia reale. I mercati finanziari non sembrano “prezzare” le grandi crisi geopolitiche che scuotono l’Europa e il bacino del Mediterraneo. I listini azionari crescono presentando il rischio di un “surriscaldamento” e di una concentrazione dei flussi di investimento verso gli Stati Uniti dove la performance borsistica è trainata, in gran parte, dalle valutazioni di soli 7“magnifici” titoli azionari di alta tecnologia. A tutto questo si aggiunge la sempre minore sostenibilità dei debiti sovrani, critica sia per le economie sviluppate del G7 sia per quelle in via di sviluppo.
È la fotografia di un’economia mondiale che continua ad essere trainata dall’America, capace di far meglio delle altre economie sviluppate. L’Europa, infatti, non è riuscita a diventare un motore aggiuntivo, così come non lo ha fatto la Cina che, pur con progressi dell’economia del 4,7% per quest’anno, rimane al di sotto delle aspettative ed è chiamata ad importanti aggiustamenti. La sfida cinese si basa su una crescita non più intensiva, ma estensiva, capace cioè di essere sostenibile, riequilibrando domanda e offerta – e quindi garantendo un miglior bilanciamento fra Stato e mercato – e puntando sui consumi interni.
In un mondo in cui il mercato non sembra più in grado di portare da solo pace e prosperità, anche l’Europa deve interrogarsi sul proprio futuro e sulla propria strategia. L’Unione non si può più costruire, come si credeva, solo a partire dal mercato unico o dall’Unione bancaria: le politiche di rilancio a seguito della pandemia e l’emissione di debito comune per il Next Gen EU pongono piuttosto la questione sul nuovo livello politico dell’autonomia strategica. Un percorso che deve ricominciare dalla costruzione di una difesa comune.
Quello mondiale ed europeo è un quadro complesso per l’economia italiana chiamata ad affrontare le sfide della transizione digitale ed ecologica con un tessuto di piccole e medie imprese che ha bisogno di supporto per mantenere la competitività. Certo, i dati delle esportazioni – con un valore di 660 miliardi di euro che colloca l’Italia fra i 5 Paesi del mondo più attivi nell’export – indicano la forza del made in Italy. Eppure, c’è bisogno di affrontare il passaggio da un’economia di prodotto a una di processo che presuppone la necessità di una politica industriale di respiro europeo, capace di recuperare terreno anche rispetto al partner americano. Una strategia su cui l’UE è risultata carente.
La necessità di una politica industriale europea dovrà essere al centro della prossima legislatura continentale, iniziando con le questioni urgenti poste dall’attuale situazione geopolitica ed eliminando eventuali incoerenze, ben evidenti, ad esempio, nelle scelte compiute sulla transizione energetica. In questo campo che rappresenta uno degli assi principali della strategia di crescita continentale, l’Europa non è risultata in grado di garantire una diversificazione delle fonti e, dopo essersi scoperta improvvisamente dipendente dal gas russo, oggi pianifica obiettivi che la rendono altrettanto dipendente da materie prime e tecnologie cinesi.
Per questo l’Unione è chiamata a un doppio sforzo. Da un lato ha bisogno di imparare dagli errori per costruire una strategia di sviluppo comune allo stesso tempo ambiziosa e realistica, in tutti i campi più importanti: dalla governance politica alla difesa, dall’ambiente all’industria; dall’altro deve dimostrare pragmatismo e flessibilità, adattando piani e strategie al mutato scenario, in dialogo con i Paesi membri, nel tentativo armonizzare le strategie comuni alla struttura e alle peculiarità delle diverse economie.
In un tale quadro l’Italia, destinataria delle maggiori risorse del Next Gen EU, è un interlocutore fondamentale: il Paese ha lavorato e sta lavorando per raccordare il PNRR con altri fondi di sviluppo, adattandosi alla mutata realtà, anche in termini di aumento esponenziale dei costi, al fine di garantire quella qualità della spesa che può generare crescita. La sfida ha un obiettivo comune: garantire un successo del piano italiano è la base per valorizzare lo strumento del debito comune ed estenderlo ad altri settori. Solo così l’Europa può trovare le risorse e la coesione per lavorare davvero sulla propria autonomia strategica e, quindi, sul proprio futuro.