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Attività

Reindustrializzare l’Italia? Quale business model per competere: cosa e come produrre

    • Roma
    • 6 Febbraio 2013

          Dopo anni, anzi decenni, di marginalizzazione nel dibattito economico e politico, il tema dello sviluppo manifatturiero è tornato protagonista sulla scena del policy making internazionale. Molte economie sviluppate hanno a lungo assistito – passivamente e perfino, talvolta, con un certo compiacimento – al declino dei comparti industriali nazionali, nella convinzione che il traino e principale motore dell’economia fosse, e sarebbe diventato sempre più, quello dei servizi avanzati. L’onda della globalizzazione e la prolungata crisi finanziaria hanno invece rimesso radicalmente in discussione tale assunto sostenendo l’idea che la crescita debba ripartire proprio dalla produzione e dalla fabbrica, nel quadro di una vera e propria “manufacturing renaissance”.

          Se gli USA, dopo il rilancio dell’industria automobilistica nazionale, hanno posto l’accento sulla ritrovata centralità del settore manifatturiero anche legato allo sviluppo delle energie pulite con l’esplicito obiettivo di “reindustrializing America”, un elemento chiave degli “Abenomics” (ovvero della strategia economica del premier giapponese Shinzo Abe) è proprio costituto dalla promozione di incentivi alle imprese manifatturiere focalizzate su tecnologie avanzate soprattutto legate all’energia e all’ambiente. Non poteva mancare all’appello l’Europa, sempre più consapevole della rilevanza della propria dotazione industriale (da cui deriva il 75% delle esportazioni e l’80% dell’innovazione realizzata nell’area) quale motore chiave della crescita come emerge, per esempio, dalla declinazione del recente “Growth Compact”. Soprattutto, sulla scorta di una deflagrante crisi occupazionale che ormai sembra lambire anche i paesi più forti dell’area, il rilievo che per ogni posto di lavoro creato nell’industria se ne creino altri due nei servizi, prende piede sempre più convintamente nell’agenda europea.

          In questo contesto, l’Italia, dotata di uno dei tessuti industriali fra i più progrediti (il secondo in Europa dopo la Germania, e il quinto al mondo per valore prodotto, esportazioni e occupati), può essere protagonista della partita. L’uscita dalla crisi dovrebbe, infatti, anche fondarsi sulla valorizzazione di questo storico punto di forza nazionale puntando sul rinnovamento di una base industriale solida, flessibile e moderna. La sfida è difficile, se non drammatica, tanto per i nostri imprenditori che per la forza lavoro, ma l’evoluzione rapida della crisi e degli scenari geopolitici sono anche forieri di occasioni per riprogettare i business model e ripensare le strategie competitive (specie sui mercati esteri), conquistando nuovi mercati e avanzando sulla frontiera dell’innovazione. La re-industrializzazione dell’Italia appare quindi come un passaggio cruciale per costruire un modello di crescita forte, diversificato e sostenibile per il Paese.

          Ma il rilancio dell’industria non può essere delegato alla sola iniziativa privata. Ciò non significa che debbano essere assecondate le tentazioni di interventi pervasivi e diretti dello Stato sulla produzione manifatturiera, ma che bisogna piuttosto concentrare gli sforzi sul contesto in cui le imprese private operano e competono. Lo Stato deve quindi, soprattutto in questa fase, lavorare incisivamente sulle condizioni che attivano e facilitano i percorsi di crescita industriale, e che rendono il Paese attrattivo per gli investimenti esteri. E non vi è, in questo senso, un unico singolo intervento che consenta di vincere facilmente la sfida, ma i fronti aperti sono e devono essere molteplici.

          Sono molto urgenti interventi sul costo del credito e una rimodulazione della tassazione alle imprese e al costo del lavoro. Al tempo stesso vanno attivati processi di semplificazione normativa, di superamento della lentezza della giustizia civile e amministrativa, di liberalizzazione e riqualificazione della dotazione infrastrutturale, di lotta più efficace alla corruzione, e di incentivazione alla ricerca applicata e alla creazione di nuove imprese.

          Sullo sfondo di una globalizzazione i cui effetti non si sono ancora pienamente dispiegati, e sulla scorta di una forte instabilità valutaria e finanziaria, l’industria italiana è chiamata adesso ad affrontare scelte importanti di cambiamento del paradigma produttivo. È prevedibile, per esempio, che il modello “Made in Italy” diventi sempre più un “Made by Italy” o “Brain in Italy” in cui il controllo della filiera del valore rimanga (auspicabilmente) in mani italiane sebbene articolato su più passaggi produttivi svolti al di fuori dei confini nazionali. La gestione di questi nuovi livelli di complessità richiederà leadership, visione, e talento. E attorno a un progetto di rinnovamento economico che includa come elemento saliente il rilancio dell’industria è, quindi, necessario coagulare le energie migliori del Paese per creare lavoro, investimenti, innovazione e sviluppo del capitale umano.