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Attività

PMI: crescere e cooperare per competere nel nuovo scenario globale

    • Milano
    • 27 Settembre 2010

          A più di tre anni di distanza dallo scoppio della crisi che ha investito l’economia mondiale, le imprese italiane dimostrano di aver complessivamente retto l’impatto dello tsunami economico-finanziario. Il Paese rimane la quinta potenza manifatturiera mondiale e la seconda in Europa dietro la Germania, viaggiando in controtendenza rispetto alla progressiva riduzione delle quote di mercato delle tradizionali economie industriali, Stati Uniti e Giappone in primis.

          La particolare resilienza del sistema produttivo italiano è anche frutto di un lungo processo di ristrutturazione che ha radicalmente trasformato la composizione settoriale dell’offerta, a favore di attività ad alto valore aggiunto e ad elevato potenziale innovativo. L’affermazione del nostro modello di produzione, del resto, è evidente: una larga parte dei vantaggi comparati italiani risiedono nelle attività dei distretti industriali e nelle imprese del cosiddetto quarto capitalismo.

          Permangono, tuttavia, alcune importanti criticità. Nel corso di questo lungo processo di cambiamento, infatti, il margine produttivo lordo delle imprese si è significativamente ridotto, passando dal 33 al 18%. In aggiunta, molte delle piccole e medie imprese italiane faticano a navigare da sole nelle acque dell’internazionalizzazione e della conquista di nuovi mercati, percorsi obbligati per garantire la loro sopravvivenza nel contesto di una competizione sempre più serrata. Tanto più quando il costo del lavoro è sempre meno determinante nella scelta di puntare sul mercato globale e il modello di business non dipende più dall’export “puro”. Oggi, la globalizzazione dell’economia viaggia sul binario della coltivazione di nuove e molteplici basi produttive, un’attività che richiede una salda presenza fisica sul territorio e che premia inevitabilmente le grandi dimensioni.

          Il recupero di questi margini e l’ulteriore rafforzamento dell’industria italiana richiedono quindi il passaggio a una nuova fase di sviluppo, imperniata sul rafforzamento dimensionale e qualitativo della struttura aziendale e dei prodotti, ma soprattutto sul miglioramento del contesto sistemico in cui operano le imprese. A partire da una nuova politica industriale che abbandoni la tradizione distorsiva degli incentivi diretti a favore di un modello di indirizzo e di accompagnamento della crescita, attraverso l’individuazione delle filiere più promettenti e la definizione delle strategie necessarie per trasformarle in volani di sviluppo e di aggregazione. Occorrono altresì interventi per snellire e velocizzare la fornitura di servizi pubblici alle imprese, tra cui un rilancio delle modalità di assistenza e di accompagnamento delle imprese nei mercati internazionali, e la rimozione di quei “paletti” normativi artificiali che scoraggiano la crescita dimensionale delle aziende. Un alleggerimento del carico fiscale che attualmente grava sulla produzione, pur essendo auspicabile, non può prescindere da altri fattori, come la sostenibilità dei conti pubblici.

          Alcuni dei cambiamenti più significativi, tuttavia, dovranno avvenire all’interno delle imprese: negli assetti proprietari e di governance, nella struttura organizzativa e nelle culture manageriali. Affrontando prima di tutto il problema della capitalizzazione delle imprese italiane, oggi ampiamente al di sotto della media europea: una condizione che ne limita le capacità di investimento e di espansione. Le piccole e medie imprese, generalmente di carattere familiare, nutrono spesso forti pregiudizi nei confronti dell’entrata di nuovo capitale, dietro cui si nasconderebbero pretese di controllo inaccettabili, o logiche perniciose di breve periodo (la c.d. “spremitura”).

          Occorre quindi percorrere nuove strade per favorire l’immissione di nuovo capitale nelle imprese italiane con spirito innovativo e senza preclusioni, mettendo in moto quella straordinaria risorsa che è il risparmio italiano. Al sistema bancario italiano va riconosciuto il suo ruolo tradizionale di sostegno alle aziende e le sue capacità di tenuta nel corso della crisi, pur sottolineando che l’accordo di Basilea III, nella sua forma attuale, potrebbe rivelarsi maggiormente penalizzante per l’Italia. Anche la via della quotazione in Borsa, che vede le aziende italiane indietro rispetto alle loro controparti europee, dovrebbe essere maggiormente percepita come un’opportunità. Ma le piccole e medie imprese italiane potrebbero beneficiare soprattutto dall’immissione di nuovo capitale di rischio, in tutte le sue molteplici forme. Dal venture capital al private equity: strumenti di cui si è certamente abusato nel periodo pre-crisi, ma che difficilmente corrispondono a quella rappresentazione di speculatore-locusta che spesso caratterizza il sentire comune. Bisogna accompagnare la crescita di questi strumenti nell’ottica di una finanza non fine a se stessa, considerando anche le grandi potenzialità delle partnership tra soggetti pubblici e privati che stanno attualmente prendendo corpo, come il Fondo italiano di investimento per le piccole e medie imprese.

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