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Attività

L’industria del design: un valore aggiunto per la crescita del Paese

    • Milano
    • 11 Aprile 2011

          Un valore aggiunto pari a oltre 140 miliardi di euro con circa 3 milioni e 300 mila occupati.  È la fotografia, in cifre, del motore del sistema manifatturiero nazionale, trainato dai settori di punta – le cosiddette “4 A” – del made in Italy: automazione-meccanica, abbigliamento-moda, alimentare-bevande, arredo-legno. Quest’ultima filiera, in particolare, produce per l’industria italiana un surplus altissimo in termini assoluti, superiore, ad esempio, a quello generato dalla farmaceutica inglese o dalla chimica francese. Sono numeri che collocano l’Italia prima nella graduatoria dei Paesi dell’Unione europea per la produzione di mobili e seconda su scala globale, dietro solo alla Cina, per il saldo commerciale dello stesso comparto. Ma sono, soprattutto, numeri che disegnano i contorni di una leadership indiscussa nel mondo, di un primato costruito nel corso di tutto il Novecento sulla scorta di un patrimonio di creatività e capacità realizzativa riconosciuto unanimemente come d’eccellenza. 

          C’è, in questo legame tra estro e declinazione concreta, tra “idee” e “mani”, molto di quello che comunemente viene definito il genius loci italiano: la capacità unica di trasferire in un manufatto l’evocazione del luogo e della cultura che l’hanno generato, l’attitudine a caricare un “prodotto” – nella fattispecie quello di design – di una valenza estetica ed emozionale che vada ben al di là del suo valore grezzo. 

          Tale attitudine continua senz’altro a connotare l’immagine e le performance dell’industria italiana dell’arredo-legno. Tuttavia, a fronte della straordinaria complessità del quadro geoeconomico nel quale essa è costretta a muoversi per competere con successo in tempi di globalizzazione, queste caratteristiche rischiano di non essere più sufficienti a supportare una posizione di leadership, specie se considerate in una prospettiva di medio-lungo termine. Aumentano, infatti, non solo il numero dei competitor (soprattutto asiatici) e la loro capacità di intercettare una domanda sempre più varia e frammentata, ma anche la permeabilità del sistema italiano e la sua esposizione all’emulazione o alla contraffazione. Ne consegue una difficoltà crescente, per i limiti dimensionali della struttura produttiva nazionale e per i ritardi di una gestione aziendale troppo familistica e poco manageriale, nel penetrare mercati nuovi o non saturi, comunque diversi da quelli tradizionali. 

          Più nel dettaglio, se è vero che la crisi globale ha avuto un forte impatto sul settore, è innegabile che da anni il design italiano paghi lo scotto di una fragilità di sistema che progressivamente, e nonostante il picco positivo toccato intorno al 2000, l’ha ricondotto ai livelli di fatturato fatti registrare nel 1995. 

          In quest’ottica, le prospettive di rilancio dell’industria del settore incrociano, a ben vedere, quelle più generali di recupero della competitività dell’intero sistema produttivo nazionale, fortemente orientato all’export e indissolubilmente legato ai tratti distintivi del made in Italy.  Si tratta – nel design come negli altri comparti d’eccellenza in cui a fare la differenza è il mix tra qualità estetica e artigianalità, varietà culturale e accuratezza realizzativa – della necessità ineludibile di cambiare, di innovarsi, di mettere in discussione per tornare a crescere. È un imperativo che evidentemente chiama in causa i ritardi della politica nel suo ruolo di indirizzo e stimolo dei processi economici, ma che in primo luogo attiene agli operatori del settore, investiti della responsabilità di compiere scelte coraggiose in termini di governance aziendale (con una virata obbligata ormai verso le aggregazioni tra imprese o tra gruppi d’imprese), managerialità, innovazione di prodotto e di processo, adozione di una cultura realmente orientata al mercato e alle decisioni di acquisto di milioni di nuovi ed esigenti consumatori.