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Attività

Favorire le esportazioni

    • Milano
    • 22 Febbraio 2010

          Export: motore della crescita del Paese e, al contempo, specchio di un sistema produttivo proiettato verso il mondo. Questa duplice caratterizzazione delle esportazioni italiane rappresenta, da oltre un decennio, un argomento preminente nel dibattito pubblico relativo alla competitività dell’economia nazionale in epoca di globalizzazione. Si parlava, allora, di rischio declino dell’Italia, della necessità di un riposizionamento delle nostre aziende oltre gli ambiti di tradizionale espansione, del rapporto difficile tra internazionalizzazione e delocalizzazioni, della possibilità di un “ritorno al protezionismo”, dell’urgenza di fare sistema per competere ad armi pari con i nuovi, più dinamici, protagonisti del mercato mondiale. 

          Dal 2008 il tema è ancora evidentemente centrale, ma rientra nel grande capitolo dell’impatto della crisi economica e finanziaria sull’economia globale. Per l’Italia – a fronte di una caduta del volume delle esportazioni pari a circa il 20% dall’inizio della recessione – l’imperativo è soprattutto quello di proseguire nel percorso intrapreso a fatica a partire dalla seconda metà degli anni Duemila in direzione dell’innovazione e di un’internazionalizzazione selettiva all’insegna di una nuova politica economica estera. Questo percorso – intermittente ed efficace solo a macchia di leopardo – va dunque riattivato, tenendo conto, però, sia di un modello da rivedere alla luce del mutato quadro macroeconomico e valutario (un “mondo senza più risparmio”), sia di fattori di svantaggio competitivo che già prima della crisi inibivano le performance delle aziende italiane nel mondo.

          Tre, in particolare, sono ancora le criticità con cui occorre confrontarsi. Anzitutto, la proiezione geografica delle nostre esportazioni, schiacciate per oltre la metà (58%) sui Paesi europei – che per taluni rappresentano semplicemente un “mercato interno” – e poco proiettate, invece, verso le macroaree a più alto dinamismo e potenziale, come l’intera regione asiatica, il Sud America, l’Africa settentrionale, nelle quali siamo poco presenti oppure attivi in ordine sparso.

          Il secondo elemento critico è la specializzazione produttiva dell’economia italiana. Resistono le nicchie d’eccellenza in alcuni settori (meccanica strumentale, in primis) e il made in Italy, nonostante diverse recenti battute d’arresto in termini di immagine, continua a essere garanzia di qualità per milioni di consumatori nel mondo, specie per quelli di fascia medio-alta. Tuttavia, permane la necessità di indirizzare, come stanno facendo altri Paesi avanzati, il nostro modello di specializzazione verso quei settori a più elevato valore aggiunto che, nel lungo periodo, trascineranno la domanda mondiale. Ci si riferisce, in tal caso, non solo all’alta tecnologia derivante dalla ricerca applicata, ma anche alla “produzione” di beni, tangibili o intangibili, a grande potenziale, come le infrastrutture o i servizi innovativi legati all’economia digitale. 

          Infine, il terzo fattore di svantaggio competitivo – forse il più annoso e certamente quello costitutivo della fisionomia stessa del sistema italiano – è la dimensione delle imprese. La crescita dimensionale resta un obiettivo per molti irrinunciabile. Un obiettivo, però, assai difficile da perseguire sia per la resistenza al cambiamento ancora insita in parte della cultura imprenditoriale italiana, sia per la difficoltà di programmare un framework di priorità sulle quali modulare eventuali interventi di aggregazione o fusione.

          In questo contesto, gli interrogativi riguardano tanto le strategie di riposizionamento delle singole imprese, quanto le scelte economiche più complessive del Paese. A tal proposito, l’Italia deve decidere se tornare a darsi compiutamente quella che per molti anni è stata un tabù nell’ambito della sfera dell’intervento pubblico: vale a dire una politica industriale vera e propria. Sul primo versante – relativo alle decisioni manageriali delle aziende – i passi da compiere per favorire le esportazioni investono, in primo luogo, scelte che con l’export hanno a che fare ma non direttamente: basti pensare al ruolo chiave svolto ai fini dell’internazionalizzazione dall’innovazione e dalla capitalizzazione. Complementari a queste scelte ci sono quelle correlate alla formazione o al reclutamento di figure professionali specialistiche, in grado di “leggere” i mercati, analizzarne potenzialità e debolezze, veicolare scelte di investimento, ricerca di finanziamento, delocalizzazioni. Figure capaci di interfacciarsi con gli attori economici e istituzionali sia in Italia che all’estero, costruire possibili strategie di filiera con altre imprese nazionali e sinergie con il sistema bancario e finanziario, fare rete e creare le condizioni per operare al meglio.

          Sul secondo versante, quello più propriamente istituzionale, va da sé che l’eventuale nuova politica industriale del nostro Paese non può non inquadrarsi in una cornice più generale di politica economica estera, con tutto ciò che questo comporta in termini di attivazione della rete diplomatica italiana nel mondo, rinnovato ruolo delle export agencies per sostenere l’internazionalizzazione del sistema produttivo nazionale, revisione della strumentistica a disposizione delle imprese: incentivi, Fondo PMI, canali di finanziamento, integrazione con il sistema dell’università e della ricerca pubblica per “produrre” innovazione.

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