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Attività

Imprese, produttività, società attiva: una combinazione per crescere

    • Lecce
    • 23 Ottobre 2009

          Tornare a crescere: dopo lo shock della crisi, l’economia cerca strumenti e modalità per uscire dalla recessione con un nuovo paradigma di sviluppo. Ovunque i primi segnali di ripresa lasciano presagire che il peggio è passato. Anche in Italia. Tuttavia, nel nostro Paese, a dispetto delle indicazioni che arrivano dal mercato finanziario, l’urto della crisi sull’economia reale e sull’occupazione è ben lungi dall’essere archiviato. A pagarne lo scotto sono, in particolare, il mondo del lavoro e quello delle PMI, entrambi esposti a un problema di reperimento delle risorse, frutto di una contingente difficoltà di accesso al credito (per gli individui e per le imprese), ma anche di ritardi strutturali più profondi, che la crisi non ha fatto altro che ricondurre al centro del dibattito nazionale e internazionale.

          Già prima del collasso della finanza mondiale, infatti, l’economia italiana cresceva a ritmi inferiori rispetto ai propri partner europei. Indebitamento pubblico, deficit di infrastrutture, dualismo territoriale, bassa produttività, fiscalità eccessiva sul lavoro, politica dei redditi ingessata, assenza di mobilità sociale, rigidità amministrative e burocratiche, instabilità politica: sono solo alcuni dei fattori di svantaggio competitivo che, nel pre-crisi, inducevano taluni a preconizzare un declino certo del sistema economico e produttivo nazionale. E benché il declino non sia arrivato, e anzi la nostra economia abbia dimostrato di essere più solida di altre – grazie anche a una straordinaria propensione al risparmio privato e a una buona prova di responsabilità offerta dalle parti sociali nell’ambito delle relazioni industriali – i nodi da sciogliere restano prevalentemente gli stessi. A partire da un sistema di protezione sociale obsoleto e poco adatto a sostenere i nuovi bisogni e le nuove aspettative di una società in profonda trasformazione.

          Così com’è, infatti, il welfare italiano è squilibrato sul piano della distribuzione delle risorse e poco equo su quello della tutela dei diritti. Lo indica la stessa allocazione della spesa sociale italiana che, pur in linea quantitativamente con la media dei Paesi UE, risulta appiattita per oltre l’87% su due sole voci – le pensioni e la sanità – a discapito di tutti gli altri capitoli di intervento (contrasto alla disoccupazione e all’emarginazione sociale, politiche per la famiglia, la disabilità e la non autosufficienza, housing), cui viene destinato meno del 13% del totale. Questa ripartizione riflette e amplifica il “paradosso demografico” di un Paese che invecchia, ma non cresce, enfatizzando l’impatto, sulla tenuta a lungo termine del welfare italiano, di tutta una serie di squilibri sintetizzabili della triade delle 3 G: quelli di genere; quelli generazionali; quello geografico, tra Nord e Sud del Paese.

          In quest’ottica e in una situazione di finanza generale che inibisce (se non esclude) grandi piani pubblici, è evidente che l’attenzione deve essere focalizzata sulla qualità della spesa, sulla correzione delle disuguaglianze, sul rafforzamento delle risorse sottoutilizzate. Quali che siano le ricette più adatte al caso italiano, sull’opportunità di una riforma del welfare orientata a un nuovo patto tra le generazioni, alle pari opportunità e alla convergenza territoriale, l’opinione risulta pressoché condivisa. Altrettanto condivisa pare essere la necessità di cambiare prospettiva, passando da una visione canonica fondata sul welfare State a una basata sulla welfare community, nella quale la “società attiva” assuma una soggettività propria, al pari del binomio tradizionale Stato-mercato.

          Proseguendo con le semplificazioni interpretative, alla triade negativa delle 3 G potrebbe porsi rimedio con la triade, costruttiva, delle 3 S: con la solidarietà sociale, obiettivo più dinamico ed esteso della mera protezione sociale; con la sussidiarietà, intesa in senso proprio come veicolo di com-partecipazione al governo dei processi economici e sociali; e con lo sviluppo, traguardo più ambizioso e pervasivo della sola crescita economica. Da questa angolatura il fattore territorio assume un rilevo centrale. Sia come avamposto della coesione, sia come motore di crescita del sistema Paese. La dimensione locale è, infatti, la più idonea a costruire reti:l’esperienza dei distretti industriali, dei nodi d’impresa, dei consorzi territoriali lo conferma. Così come lo testimonia l’impatto positivo che un sistema di intermediazione finanziaria capillarmente radicato sui territori ha avuto, durante la crisi, nel facilitare il rapporto, difficile, tra banca e impresa.

          Di certo c’è che oggi, e ancor di più nel dopo-crisi, competitività e coesione, crescita ed equità sono obiettivi complementari e insostituibili, a livello sia globale che locale. E il mondo dell’impresa e del lavoro – le sue regole, il suo andamento, l’interazione tra i soggetti che vi partecipano – continua a essere il terreno sui cui testare la combinazione giusta per tornare a crescere. Rafforzando le sue potenzialità inespresse, a cominciare dall’occupazione femminile, dal merito nelle università, dall’integrazione della popolazione immigrata. E correggendo quello che non funziona, dalla stratificazione legislativa (camuffata da deregolamentazione) al sistema degli ammortizzatori sociali, che oggi riesce a tamponare l’emergenza ma non ad attivare percorsi virtuosi di reimpiego, dal sostegno alla crescita dimensionale delle imprese (soprattutto di quelle medie) al rilancio della produttività attraverso innovazioni gestionali e manageriali. Il tutto, auspicabilmente, con l’approccio costruttivo di un sistema che, intorno alle grandi riforme di cui il Paese ha bisogno, rispolvera lo spirito dell’interesse generale e ritrova la capacità di costruire “patti costituzionali” funzionali solo alla costruzione del futuro e alla sua piena sostenibilità.

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