Consolidare i frutti dell’industrializzazione per passare a una vera economia postindustriale, basata anche e in modo crescente sulla domanda interna. Non sarà facile per Pechino fare il salto nell’epoca di una parziale “de-globalizzazione” dell’economia internazionale. Le strategie economiche di Xi Jinping fanno fatica ad ottenere i risultati sperati. Il pragmatismo che viene spesso attribuito alla leadership cinese non basta a compensare le rigidità di un sistema decisionale e burocratico pensato per privilegiare il controllo verticale del Partito. E la non fallibilità del suo leader. Proprio nel momento in cui la Cina è in grado di esercitare un’influenza senza precedenti, emergono i vincoli e i limiti del suo modello di crescita: siamo alla fine del miracolo cinese per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi decenni?
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L’iper-personalizzazione di Stato e Partito attorno alla figura di Xi – ancora più evidente con il XX congresso del Partito comunista cinese – rischia paradossalmente di evidenziare proprio le debolezze del nuovo imperatore. Il crescente intervento coercitivo riflette la sfiducia (reciproca) tra autorità e cittadini, cioè la mancanza di legittimità reale. Il dinamismo del modello cinese rischia di fermarsi. Se ciò avviene (e forse è già avvenuto), si disgrega il patto sociale intergenerazionale che ha retto la Repubblica popolare dagli anni delle riforme di Deng Xiaoping: in breve, le condizioni di vita devono continuare a migliorare in modo tangibile affinché il dissenso sociale e le divergenze interne a un paese vastissimo non sfocino nella contestazione politica. Se questa trappola dovesse mai scattare, davvero la leadership comunista si troverebbe di fronte una minaccia esistenziale.
Peraltro la Repubblica popolare è diventata sempre più impopolare all’estero, e perfino quando viene apprezzata come partner commerciale, viene ormai criticata e stigmatizzata come regime politico. I riflessi si vedono: a prendere atto di un clima certamente mutato, assai meno “business friendly”, è ad esempio la Camera di Commercio dell’Unione Europea a Pechino, che nel suo “Position Paper 2022-2023” constata un aumento dei rischi per gli investitori e prevede una fase di disinvestimenti. Insomma, la fiducia del business internazionale nei confronti del modello cinese è già in drastico calo.
Anche se l’ipotesi avanzata dal segretario al Tesoro americano, Janet Yellen, sul “friend-shoring” – la cooperazione privilegiata tra alleati – offre spazi di manovra e andrà sfruttata, rimarrà comunque una quota di interdipendenza con un mega-mercato come quello cinese. In chiave sistemica, l’infrastruttura globale su cui ha poggiato l’espansione dei commerci trainata dalla crescita cinese e dai consumi americani è ancora funzionante, ma a ritmi rallentati, con catene del valore più corte e con snodi cruciali che rischiano di bloccarsi. È quindi davvero difficile per tutti – soprattutto per l’Europa – perseguire progetti a medio e lungo termine che richiedono massicci investimenti e regole chiare
Non sarà infine la Repubblica popolare cinese – che è alle prese con le proprie difficoltà – a sacrificare gli interessi a lungo termine per salvare le sorti di un “junior partner” come la Russia molto problematico e poco affidabile che, con l’invasione dell’Ucraina, si è infilata in una terribile trappola, psicologica, politica e militare. Il pragmatismo della Cina in questo caso esiste e resiste, unito a un comportamento opportunistico che la porta a sfruttare qualche dividendo potenziale della guerra in Ucraina, ma senza perdere di vista ciò che realmente conta per Pechino: l’esito della competizione globale con gli Stati Uniti. Una competizione che, dal punto di vista geopolitico, la Cina si giocherà in Asia, più che alla periferia orientale dell’Europa.