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I rapporti transatlantici tra voto europeo e americano

  • Roma
  • 21 Ottobre 2024

        Le elezioni del 2024, come d’altronde tutte le presidenziali dell’intero XXI secolo, sono seguite dall’Europa con la percezione di grandi interessi in ballo a seconda dell’esito finale.  

        Tra le ragioni di questo atteggiamento c’è senz’altro il dato per cui, nonostante tendenze socio-economiche interne contraddittorie, gli Stati Uniti sono ancora l’unica vera superpotenza del mondo. L’Europa, da parte sua, si trova invece a convivere con problemi e debolezze accumulate per troppo tempo. L’incertezza attraversata dagli Stati europei, che analizzano da decenni i propri problemi per vederli soltanto crescere – sia all’interno della UE sia ai propri confini orientali e meridionali – si rivela dunque duplice, perché l’Europa si trova ad affrontare anche l’incertezza americana.

        Il dilemma degli elettori americani è amplificato dalla ricomposizione in corso del sistema globale. Cosa che avviene in parte proprio alle porte d’Europa, tra Ucraina, Medio Oriente e Africa Sub-Sahariana, ma anche attorno a Taiwan e nella vasta periferia cinese. In momenti come questo, la storia ci insegna che non conteranno tanto la capacità, la visione del mondo o il professionismo dei due diversi candidati, quanto la loro capacità di reagire e improvvisare di fronte a eventi imprevisti, come quelli che si sono accavallati nel mondo negli ultimi anni – dall’invasione dell’Ucraina al 7 ottobre 2024 in Medio Oriente.

        È su questo che Harris e Trump saranno giudicati, più che su quanto hanno già fatto in passato. Dal punto di vista di Harris, siamo quasi su una pagina bianca, pur arrivando alla candidatura da vice-presidente. Di Trump, invece, conosciamo già un intero mandato – ed è un precedente che non fa ben sperare sul piano internazionale – perché abbiamo visto in quei quattro anni il candidato repubblicano farsi dominare soprattutto dalle sue confusioni e idiosincrasie.

        In ogni caso, entrambi i candidati presentano debolezze politiche significative: Harris non è passata attraverso il meccanismo delle primarie, cosa che costituisce un handicap nel rapporto con l’elettorato democratico, il quale infatti continua a nutrire dei dubbi sulle sua capacità e sui suoi programmi, anche quando è orientato culturalmente a votarla. Trump è conosciuto da tutti, ma è paradossalmente poco ascoltato nelle sue dichiarazioni, con una presenza sempre più ingombrante e polarizzante: i suoi sostenitori tendono a minimizzare i messaggi più estremi e anti-istituzionali, mentre i suoi detrattori li considerano al contempo gravissimi e “poco seri”. Se potessero, in generale, gli americani sceglierebbero qualcun altro; nel 2020, invece, il voto fu vissuto con altrettanta ansia, ma con meno scoramento.

        Le ricadute del voto sull’Unione Europea, comunque, in quanto anello fondamentale e centrale della catena di alleanze degli Stati Uniti, saranno importanti. Da questo punto di vista, l’eventualità di una vittoria di Trump sarebbe molto diversa rispetto all’alternativa. L’ex presidente ha infatti già dimostrato di considerare l’Unione Europea un avversario economico-commerciale o tutt’al più un partner ben poco affidabile – si ricordano le sue congratulazioni per la Brexit – ed è ben deciso ad interagire con i governi europei in chiave strettamente bilaterale, contrastando le poche linee di azione su cui i membri dell’UE convergono realmente.

        La prima di queste riguarda il cambiamento climatico: Trump è un negazionista convinto e confesso, mentre la UE – in teoria, almeno – fa della transizione ecologica la bandiera della propria azione. La seconda riguarda il commercio internazionale, anche questa una caratteristica fondativa dell’integrazione europea e dei suoi rapporti con il resto del mondo: è incompatibile col protezionismo senza appello propagandato da Trump e con le barriere tariffarie orizzontali che l’ex presidente ha intenzione di mettere su tutto l’import americano, danneggiando così fortemente l’industria europea. La terza interessa la Cina, nei confronti della quale gli Stati Uniti di Trump vorranno mantenere un rapporto unilaterale da posizioni di forza, oppure romperlo del tutto, ma comunque scavalcando gli alleati e i loro interessi, a cominciare dalle relazioni commerciali euro-cinesi.

        Eppure, anche nel caso di una vittoria di Kamala Harris, l’Europa non dovrà aspettarsi ponti d’oro, o il ritorno di un rapporto paritario con gli Stati Uniti: il processo per il quale gli interessi principali americani si stanno concentrando in Asia è irreversibile ed è stato ampiamente avviato già sotto Barack Obama. Lo scenario ucraino potrebbe essere il primo in cui ciò si verificherà. È per questo che gli Stati europei dovrebbero concentrarsi sulle proprie gravi carenze, come ad esempio la mancanza di una politica industriale comune, l’arretratezza delle imprese tecnologiche e, in generale, l’esistenza di imprese sotto-dimensionate rispetto ai colossi americani e cinesi che sono in grado di agire sull’intero scenario globale.

        In tale quadro è abbastanza normale che l’Europa si aspetti dall’America un ritorno di questa nel suo preteso ruolo di stabilizzatore delle crisi. Allo stesso tempo, abbondano le evidenze per cui il sistema della diplomazia americana è in panne.

        Lo si vede in Ucraina, dove dopo aver convinto Kiev a combattere successivamente all’invasione, si fa ora strada l’idea di un armistizio che rischia di essere molto o troppo favorevole a Putin. E lo si vede ancor più in Medio Oriente, dove il governo di Netanyahu, pur prendendo risorse finanziarie e militari in abbondanza dagli Stati Uniti, continua ad ignorare i ripetuti moniti americani e a seguire politiche praticamente unilaterali. Si tratta di fallimenti diplomatici dell’amministrazione Biden che rischiano di essere pagati cari da Kamala Harris, in un’elezione che sarà decisa da un pugno di voti. Abbiamo visto infatti che soprattutto i settori più filo-palestinesi dell’elettorato americano promettono di boicottare la candidatura democratica.

        Tra le ragioni di questi smacchi c’è la polarizzazione interna dell’America che impedisce una politica estera continuativa e coerente: Obama firma gli Accordi di Parigi sul cambiamento climatico, Trump li cancella; Obama firma l’accordo sul nucleare iraniano, Trump lo cancella. Lo stesso rapporto con gli alleati NATO è diventato instabile e incerto. Si tratta di oscillazioni che indeboliscono in maniera cruciale gli Stati Uniti e non è forse un caso che i loro nemici – da Putin ad Hamas –  decidano proprio ora di attaccare. Di certo, non c’è una capacità costante di stabilizzazione dei maggiori quadranti strategici.

        In un tale scenario, è decisivo per l’Europa costruire un sistema difensivo militare autonomo, senza che questo implichi uno sganciamento dagli Stati Uniti: si tratterebbe di una NATO euro-centrica insomma. È un imperativo evidente soprattutto a fronte della sfida russa: sull’Ucraina, Trump promette di ottenere il cessate il fuoco con la Russia “appena eletto”, ma per ottenerlo dovrebbe concedere pezzi di territorio ucraino a Mosca. Questo pericoloso schema di annessioni, probabilmente senza garanzie, potrebbe essere ribaltato soltanto se l’Ucraina tornasse al contrattacco e rovesciasse l’inerzia della guerra. Ma di armi, dall’Occidente, continuano a non arrivarne abbastanza, allo scopo. Anche una vittoria di Harris porrebbe un dilemma simile, che comunque andrebbe a ricadere sulle spalle degli europei, in primo luogo, per ragioni geografiche, economiche, migratorie. Il quesito aperto riguarda insomma la sicurezza del Vecchio Continente e solo assai indirettamente gli interessi primari degli Stati Uniti.

        Ciò significa, in conclusione, che il voto americano è in realtà un bivio più illusorio di quanto si creda: l’Europa non ha scelta se non quella di lavorare per una maggiore autonomia e soprattutto per una maggiore efficienza ed efficacia della sua azione aggregata. Il che vale sia sul piano economico sia su quello della sicurezza e della difesa, aspetti collegati dall’innovazione tecnologica.