Il primo discorso ufficiale di Donald Trump come 47° presidente degli Stati Uniti è stato preceduto da una transizione post-elettorale decisamente ricca di dichiarazioni e dibattiti accesi. Il simbolismo di una rottura con la precedente amministrazione è stato evidente, anche nella particolare visibilità che è stata offerta nella cerimonia di inaugurazione ai maggiori protagonisti dell’economia digitale americana (non soltanto Elon Musk), che alcuni vedono come la manifestazione di un “nuovo capitalismo”.
È stato anche notato che l’intera traiettoria politica di Trump riflette un rifiuto e una critica della logica “globalista” che ha ispirato le recenti amministrazioni democratiche. Il neo-presidente ha inviato messaggi molto netti su immigrazione, tariffe, temi interni di tipo culturale, agenda verde: tutti annunci in linea con le aspettative create durante la campagna elettorale, ma confermati nei toni e nella sostanza come veri elementi di contrapposizione rispetto all’amministrazione precedente – e perfino a decenni di consenso parzialmente bipartisan. Indicando le scelte di fondo del suo predecessore (e pure di altre amministrazioni precedenti) come un “tradimento” dei valori e degli interessi americani, Trump ha impostato la sua presidenza in modo chiaro, facendo riferimento a una molteplicità di questioni come vere emergenze nazionali – soprattutto l’immigrazione, l’energia, l’inflazione, il commercio – e prefigurando un ampio ricorso a misure eccezionali e prerogative esecutive.
Sul piano economico, l’approccio presentato nel discorso inaugurale sembra concentrarsi sulla lotta all’inflazione, ma anche su stimoli ad alcuni settori – manifatturieri ed energetico, in particolare – in chiave di deregolamentazione. Resta da valutare se l’insieme delle misure al momento soltanto accennate avrà le caratteristiche di una vera politica industriale coerente, che certamente farà anche ricorso a una serie di dazi la cui entità è anch’essa da definire.
In ogni caso, le politiche economiche dovranno tenere conto sia dell’attuale andamento dei consumi, della crescita, dell’occupazione e delle performance finanziarie – tutti complessivamente buoni – ma anche delle stime per i prossimi due anni circa, che invece presentano alcuni elementi di preoccupazione a causa di vari squilibri e punti deboli. Sulle tariffe si dovrà trovare un punto di equilibrio per non importare inflazione, cosa che nelle intenzioni di Trump si dovrebbe ottenere soprattutto con un forte contributo della produzione energetica da fonti fossili.
Sul piano della politica estera, il discorso di insediamento è stato denso di avvertimenti – per gli avversari ma soprattutto per gli alleati e i partner più stretti di lungo corso – su un’America che punterà a prevalere e a far valere tutto il proprio peso, senza mezzi termini, in ogni contesto negoziale o conflittuale. L’approccio prefigurato è quello di agire sempre e comunque da posizioni di forza e senza troppo preoccuparsi degli effetti indiretti e “sistemici” sugli assetti globali. Si tratta di una visione quasi a somma zero – decisamente unilateralista e non isolazionista – in cui, infatti, non sono mai state menzionate le alleanze e gli accordi internazionali. Il messaggio specifico sul canale di Panama – in cui si è ribadito che il controllo deve tornare in mani statunitensi – si può ritenere sintomatico di una modalità molto assertiva di azione internazionale che riporta (deliberatamente, visti i riferimenti ai presidenti William McKinley e Theodore Roosevelt) perfino ad un passato imperiale.





Gli alleati europei – che non sono stati praticamente menzionati nel discorso inaugurale – hanno di fronte una sfida ormai nota, ma devono adottare politiche più efficaci per poter negoziare con Washington in questa fase, e probabilmente rinegoziare diversi elementi del rapporto transatlantico. In un quadro del genere, anche le imprese, oltre ai governi, devono adottare misure proattive e non soltanto difensive e reattive. Ma servirà una forte partnership pubblico-privato, soprattutto per mobilitare la quantità di risorse che in sostanza sono state già identificate dai Rapporti Draghi e Letta.
L’Unione Europea ha avuto, in effetti, un parziale risveglio strategico negli ultimi anni, in particolare sulle questioni della competitività economica, dell’industria della difesa, della finanza; ma non ha preso concrete decisioni che siano sufficienti a cambiare i rapporti transatlantici e fornire all’UE e ai membri europei della NATO strumenti adeguati per perseguire una politica estera e di sicurezza che possa considerarsi – almeno quando si rendesse necessario – autonoma. È probabile che si debba anche metabolizzare in pieno un mutamento più ampio: dovrebbe essere ormai abbandonato in modo definitivo l’assunto di una naturale comunanza di valori e obiettivi generali con gli Stati Uniti, per far emergere una relazione più equilibrata, ma anche più pragmatica.
I rapporti transatlantici, in ogni caso, andranno inseriti nella cornice più larga degli equilibri globali, e dunque soprattutto della centralità per Washington del quadrante indo-pacifico, che vede naturalmente la Cina come attore principale. In tal senso, resta da vedere l’approccio che Trump adotterà verso Pechino sia sul piano strettamente economico sia su quello della sicurezza regionale e globale. Su questo punto il discorso inaugurale non ha fornito indicazioni precise, suggerendo che probabilmente la nuova amministrazione vorrà lasciarsi un certo spazio di manovra diplomatica per verificare pragmaticamente le intenzioni cinesi.