Il mondo sta affrontando una fase di grande incertezza che vede il manifestarsi contemporaneo di diverse crisi. Si tratta dell’acuirsi di problemi latenti, deflagrati con la fase di deglobalizzazione economica. Alcuni di questi sottendono rischi esistenziali e di difficile gestione: è il caso dell’isolamento di una potenza nucleare come la Russia; della crescente rivalità fra Stati Uniti e Cina oppure di un possibile confronto fra l’Occidente e l’Iran.
L’Europa è il continente più esposto agli effetti negativi del nuovo quadro: se per la situazione in Medio Oriente si può sperare in una dinamica evolutiva che riprenda il cammino di dialogo fra Israele e il mondo arabo, il conflitto e la rottura dei legami commerciali con Mosca sembrano destinati ad avere conseguenze durevoli sull’economia, le politiche e le società europee.
Diversa è la situazione degli Stati Uniti. L’avvicinarsi di un’elezione presidenziale potenzialmente destabilizzante, contraddistinta da forti divisioni e da una probabile riedizione del duello celebrato nel 2020, non pare avere grandi conseguenze sull’economia del paese. La robusta iniezione di risorse finanziarie, pari al 40% del PIL, realizzata negli ultimi due anni si è innestata su un motore economico ben funzionante. L’America ha allontanato, così, il rischio recessione e si avvia a un rallentamento che assomiglia nei fatti a un soft landing.
A dimostrare la tenuta del sistema economico statunitense è anche la grande capacità di riconversione di cui ha dato prova nell’ultimo decennio, compensando la deindustrializzazione con un primato senza rivali nell’alta tecnologia. Anche per questo i mercati non sembrano prezzare lo scenario americano come un rischio: pur rimanendo aperta la possibilità di nuove misure protezioniste, la riedizione della presidenza Trump offrirebbe comunque, secondo gli investitori, opportunità dal punto di vista della riduzione delle imposte.
Tutto questo avviene mentre la Cina è alle prese con performance economiche lontane dalle aspettative. La Repubblica popolare mantiene una certa cautela sul proprio futuro anche alla luce dei profondi problemi demografici che rischiano di farla diventare troppo “vecchia” prima che abbia raggiunto livelli soddisfacenti di benessere economico. L’impressione che si ricava, insomma, è quella di un quadro in cui gli osservatori sottovalutano costantemente l’importante resilienza economica degli Stati Uniti, sopravvalutando al contempo quella cinese.
La solidità americana è una buona notizia per l’Europa. L’asse con gli Stati Uniti rimane, del resto, un’ancora importante per un continente che al momento sembra alquanto debole. Un’Unione priva di materie prime, di leadership tecnologica, di un vero mercato finanziario integrato, di un esercito o di una politica estera comuni continua ad avere poche armi negoziali. È auspicabile una ripresa del processo di integrazione continentale, che superi gli ostacoli dell’attuale meccanismo decisionale con diritto di veto e riproduca lo slancio con cui l’Europa è uscita dalla pandemia. In parallelo serve però un’azione urgente a stimolo e sostegno di un’economia che vent’anni fa era comparabile a quella americana e oggi sconta una distanza pari almeno al 25%. L’industria rimane al cuore dell’UE che, infatti, si è deindustrializzata meno degli Stati Uniti, riaffermandosi come seconda manifattura del mondo dietro la Cina. Si tratta di un settore che va sostenuto e accompagnato con pragmatismo nel processo di transizione energetica per evitare ulteriori perdite di competitività.
In parallelo persiste, tuttavia, una debolezza nei settori più innovativi, con preoccupazione per le tecnologie di punta destinate alle transizioni ecologica ed energetica, in particolar modo per quanto riguarda la dipendenza da importazioni cinesi. Tale debolezza si riflette anche a livello di investimenti. Se il settore pubblico spende in innovazione livelli paragonabili a quelli degli Stati Uniti, manca in Europa una vera spinta derivante dalle imprese. Del resto, la forte attenzione alla concorrenza ha impedito nel continente il consolidamento di campioni nazionali in diversi campi. Ci sono particolari evidenze sia nel settore finanziario, ma soprattutto in quello tecnologico: le “magnifiche 7” società tecnologiche americane hanno una capitalizzazione che supera quella dei cinque listini azionari più grandi al mondo. La sola Tesla, che è la meno capitalizzata del gruppo, vale più dell’intera Piazza Affari.
Si torna quindi alla necessità di una nuova visione del progetto comunitario: è tramontata l’idea, progressiva e positiva, della costruzione di un mercato unico nei cui trattati era assente la parola “crisi”. L’Europa deve riprendere a unirsi e, nel farlo, ha bisogno di un nuovo hardware istituzionale e di un nuovo software politico. Il 2024, con le elezioni europee e le presidenziali americane, può rappresentare un momento di svolta sia nell’auspicato processo di integrazione continentale sia nell’evoluzione dei rapporti – commerciali, industriali e di difesa – tra le due sponde dell’Atlantico.