Il 2024 è un anno elettorale cruciale per Europa e Stati Uniti che si trovano a fronteggiare non solo le questioni politiche interne, ma anche la forte pressione delle crescenti tensioni internazionali. L’esito delle elezioni sarà un primo, importante, indizio per capire se le due sponde dell’Atlantico continueranno ad agire insieme in questo mondo senza centro né guida – contraddistinto da quella è stata definita l’età delle policrisi – oppure se le loro divergenze aumenteranno.
La fine della globalizzazione, o almeno una sua profonda rivisitazione, pongono nuove questioni all’Occidente. La crisi del 2008 ha avuto conseguenze sugli Stati Uniti e sulla loro proiezione globale, perché ha segnato il momento in cui la Cina ha iniziato a porre con più forza un’agenda propria, convinta dell’inevitabile declino della potenza americana. Eppure, la situazione più fragile sembra quella dell’Europa. La reazione della pandemia ha segnato un avanzamento nella coesione europea, ma oggi il rischio è che le difficoltà del progetto comune portino l’Unione a essere troppo debole per rimanere una partner credibile di Washington. L’importanza di un nuovo accordo economico fra le due sponde dell’Atlantico sarebbe, invece, centrale per ridare forza all’Occidente nell’incerto contesto attuale.
L’Europa, intanto, è chiamata a recuperare credibilità in primis dal punto di vista della politica estera e di quella di difesa, dove enormi sono le inefficienze causate dalla frammentazione fra i diversi Stati e i loro differenti sistemi d’arma. Si tratta di scelte che devono passare anche da un’adeguata strategia di politica industriale. Il rischio è che le lentezze rendano difficile questo processo, allontanando l’UE dagli Stati Uniti e lasciandola in balia di crisi molto – troppo – vicine ai suoi confini, come quelle in Ucraina e nel Medio Oriente.
Il tutto mentre il Vecchio Continente deve affrontare tre transizioni che si presentano come vere e proprie rivoluzioni: quella geopolitica e geo-economica che si struttura interno alla rivalità Cina-Stati Uniti e che vede ridursi la rilevanza e il benessere delle classi medie occidentali ed europee in particolare, vista la perdita di competitività rispetto all’economia americana. In secondo luogo la transizione climatica, con effetti rilevanti non solo sul territorio europeo ma anche sui fenomeni migratori nel Mediterraneo e, infine, quella, digitale con grandi incertezze sulla capacità europea di assicurarsi le necessarie materie prime.
In un tale scenario di continue trasformazioni e incertezze si inserisce l’importanza di garantire all’Europa un’autonomia strategica che non sia autarchia o isolamento, ma capacità di contare globalmente a livello industriale, economico e tecnologico. Questo significa guardare non solo all’asse orizzontale della politica mondiale, che pone l’asse Parigi-Berlino in mezzo fra la rivalità Washington-Pechino, ma anche a quello verticale che deve basarsi su una maggior collaborazione fra Italia e Francia. L’obiettivo deve essere quello di affrontare le complesse questioni esplose nell’Europa mediterranea, e che coinvolgono anche e soprattutto il continente africano. In questo senso l’allargamento a Est dell’Unione rimane un tassello fondamentale, ma non potrà funzionare senza una strategia che interessi i Paesi, ancor più vicini, della sponda Sud.
L’idea di Jean Monnet che l’Europa si forgia nelle crisi ha una sua veridicità storica, ma oggi, di fronte alla policrisi, l’Unione si trova a un bivio. Con 70 anni è un’entità giovane, nel consesso politico mondiale e per essere un partner forte e credibile degli Stati Uniti deve iniziare a capire cosa “fare da grande”: può chiamarsi fuori dai giochi, proponendosi come una sorte di grande Svizzera globale. Oppure può recuperare la distanza in termini di leadership, competitività e autonomia che la separano dall’altra sponda dell’Atlantico, contribuendo a costruire il nuovo, complesso, assetto che uscirà dalle transizioni e delle crisi in atto.