Aspenia, la rivista trimestrale di Aspen Institute Italia diretta da Marta Dassù, è stata fondata nel 1995 e, dal 2002, è pubblicata da Il Sole 24 Ore. Al numero in uscita a fine dicembre “La debolezza della potenza” hanno contribuito tra gli altri Robert Gates, Arrigo Sadun, John Bessler, Walter Russell Mead, Julian Lindley-French, Adam Tooze e Nicola Pedde, Thomas J. Duesterberg, Andrew Spannaus, Eric B. Schnurer, John C. Hulsman, Adam S. Posen e Carlo Jean.
Il mondo pare trovarsi in una classica fase di interregno, come altre volte nella storia, in cui un vecchio ordine decade ma il nuovo ordine ancora non esiste. Incerti sono il presente e il futuro della “Pax americana”, ossia il sistema di regole e istituzioni internazionali prodotte dalla seconda guerra mondiale e gradualmente allargate nel post-1989. Ma viene da chiedersi se, soprattutto, possa esistere ancora un attore egemonico disposto a difendere tale sistema. Farsi una domanda del genere è già di per sé un attestato del ruolo unico che gli Stati Uniti occupano tuttora sul piano globale.
Così l’America, potenza preminente ma non più dominante, ha scelte difficili da compiere. A maggior ragione quando, come da alcuni anni a questa parte, quella potenza è indebolita all’interno da una disfunzione grave del suo meccanismo politico-istituzionale, con una fortissima polarizzazione tra i due partiti e con fratture dentro i partiti stessi.
La tesi di Aspenia è in effetti che stia qui, nella debolezza interna, il maggiore rischio per gli Stati Uniti. È evidente una crisi di leadership, in parte di tipo generazionale: né Joe Biden né Donald Trump incarnano le aspirazioni e le priorità di gran parte degli elettori americani, ma il sistema elettorale ha finora impedito l’emergere di credibili candidati alternativi. Non esiste un ricambio naturale: Biden è fortemente danneggiato dal fattore età, ma ritiene di essere ancora il migliore candidato possibile per battere Trump, esito non avvalorato dai sondaggi attuali e dalla frattura probabile della coalizione democratica. La corsa di Biden verrà complicata dall’esistenza di terzi candidati, mentre Trump probabilmente si aggiudicherà la nomination repubblicana. E avrà il vantaggio di potersi battere contro un sistema che molti americani hanno smesso di apprezzare, mentre Biden ne è fino in fondo un rappresentante.
Il rischio, per il novembre 2024, è che si profili, quindi, lo scenario di una vittoria elettorale comunque impopolare, a seguito di un voto concesso controvoglia e senza entusiasmo. Vista la crisi di fiducia nelle istituzioni, esistono tutte le premesse di una deriva della democrazia americana.
In questo quadro Pechino e i suoi pseudoalleati (perché nessuno di loro accetta davvero di definirsi tale) possono contribuire alla disgregazione parziale della Pax americana – e lo fanno. Ma non sono in grado di offrire un modello alternativo, né interno né internazionale. L’Occidente, nonostante tutto, dispone di un modello politico-sociale ancora valido e di importanti leve economiche. E al cuore dell’Occidente – pur con tutte le difficoltà interne e i dubbi su un ruolo internazionale – restano gli Stati Uniti.
Quando si parla di una nuova “guerra fredda” fra Cina e Stati Uniti, si parla, insomma, anche di una competizione, o forse una diretta contrapposizione, tra modelli politici. Pur con i suoi molti difetti, il modello americano resta più attraente. Come quello europeo, se guardiamo esclusivamente al “soft power”. A volte sembra prevalere uno strano pudore nel fare questa semplice affermazione.
La sfida, per gli Stati Uniti e per l’Europa, diventa come gestire una Cina che non riesce più a trainare la crescita globale ma cerca di influenzarla e condizionarla: non c’è solo l’acquisizione delle materie prime strategiche per la transizione sostenibile (e delle loro intere filiere), ma anche lo sfruttamento sistematico della grande massa di Big Data di cui dispone Pechino, e il controllo di infrastrutture e nodi strategici per il commercio internazionale.
Intanto stanno venendo al pettine i ben noti limiti del miracolo cinese, con i difetti di un sistema politico quasi asfissiato dall’accentramento di Xi. E ciò accade nel momento peggiore per la Cina, quando Washington e molti suoi alleati hanno attivato misure di contrasto diretto e indiretto verso la penetrazione di Pechino. Il paradosso è che i comportamenti cinesi stanno contribuendo in modo decisivo a frammentare la globalizzazione, cioè proprio la dinamica che ha arricchito la potenza asiatica e l’ha resa più potente nel corso di oltre tre decenni. È una scommessa ad altissimo rischio per Pechino, perché in estrema sintesi la Cina è meno forte di quanto si pensi, mentre l’America è più forte di quanto si dica.