Aspenia, la rivista trimestrale di Aspen Institute Italia diretta da Marta Dassù, fondata nel 1995, dal 2002 viene pubblicata da Il Sole 24 Ore. Al numero in uscita in ottobre Battaglie per l’Europa hanno contribuito tra gli altri Charles Grant, Heather Grabbe, Wolfgang Münchau, Michele Valensise, Paolo Guerrieri, Pramit Pal Chaudhuri, Erik Jones, Sergio Fabbrini, Julian Lindley-French, Stefano Cingolani, Faisal J. Abbas, Antonella Scott, Alexander Baunov, Carlo Bastasin e Alexey Gromyko.
L’Europa di oggi rischia molto: la combinazione fra l’”età della policrisi” – ovvero crisi finanziaria e del debito sovrano ( 2008-2011), pandemia (2019-21), guerra tecnologica tra Stati Uniti-Cina e, infine, il ritorno della guerra in Europa con l’aggressione russa all’Ucraina nel febbraio 2022 – imporrebbero, per sostenere una vera “capacità strategica”, una risposta più efficace sulle grandi sfide comuni come sicurezza, energia, migrazioni e politiche fiscali. In più, quando la guerra in Ucraina finirà, in Europa torneranno ad emergere, e anche in forma più acuta, i contrasti nord-sud in materia fiscale – già riemersi dalle discussioni sulle scelte della Banca centrale e la revisione del Patto di Stabilità – e quelli est-ovest in materia di politica estera e perfino di stato di diritto. Su materie cruciali gli europei restano divisi: le migrazioni sono solo la punta dell’iceberg e su altri temi le percezioni continuano a divergere – ad esempio cosa fare in futuro con la Russia – e riemerge dagli armadi un dibattito sul Patto di Stabilità che si fa molta fatica a non definire “antistorico”.
Il centro di gravità dell’UE si sta in parte spostando a est, verso una Polonia che l’Italia di Giorgia Meloni considerava un alleato certo per poi scoprire, nel suo nuovo europeismo pragmatico, che così non è. Perlomeno in campi – la gestione della politica migratoria – cruciali per noi. Nel frattempo, la rottura con la Russia, diventata nei fatti junior partner di una Cina che Mosca non ama e non ha mai amato, ha contribuito alla crisi del modello industriale tedesco, cui si collega una parte rilevante della nostra economia: il nuovo pessimismo sulla Germania, che è in recessione tecnica e dove l’AfD è ormai il secondo partito nazionale, appare giustificato. La Francia di Macron non sta messa molto meglio, fra ambizioni sproporzionate all’esterno – “esposte” come mai prima dalla successione di colpi di Stato nel Sahel – e fragilità interne. Ci vorrebbe un’Europa che funzioni sulla base di una sovranità “condivisa”. Non “ceduta” a Bruxelles; ma “condivisa” dagli Stati nazionali che si servono di istituzioni comuni. È il passaggio intellettuale da compiere: anche rifuggendo da una prospettiva federale, un’Unione di Stati nazionali ha bisogno, per funzionare, di sforzi congiunti e di investimenti comuni molto più rilevanti. Il tasso di competizione interna resterà; ma in un contesto cooperativo necessario e almeno in parte integrato.
La discussione sull’Europa, che è alla vigilia di elezioni cruciali (giugno 2024) per definire le prossime maggioranze politiche, avviene in un contesto internazionale in cui il vecchio ordine a guida occidentale è contestato. Il ruolo delle potenze di mezzo, tutte più o meno convinte dei limiti delle istituzioni plasmate dall’Occidente, condiziona gli equilibri internazionali. Ma questo non significa che il “Sud globale” riuscirà a produrre, con l’allargamento dei BRICS a sei nuovi e disparati paesi (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti), un ordine internazionale alternativo a quello occidentale. Sul piano geopolitico l’Occidente appare ricompattato, anche se ristretto, con un vantaggio netto degli Stati Uniti rispetto all’Europa, che ha perso ulteriormente competitività negli ultimi dieci anni, così come il Giappone, rispetto all’America; la Russia si è spostata verso la Cina, di cui è nei fatti diventata uno Stato vassallo; la rivalità tecnologica fra Pechino e Washington è la forma che sta assumendo la guerra fredda 2.0 fra le potenze del secolo. Mentre il Golfo aumenta di importanza – energia e forza finanziaria – l’Africa saheliana vive una stagione di colpi di Stato, l’Argentina guarda di nuovo al dollaro, i paesi asiatici rafforzano i legami di sicurezza con gli Stati Uniti e quelli economici con la Cina.
La Russia dal canto suo non ha mai accettato di aver perso la guerra fredda, mentre gli Stati Uniti hanno gestito il dopo-1989 come una vittoria – e la era. Putin cerca di rifarsi in Ucraina con enormi tragedie e distruzioni. Il rublo cade, ma la Russia regge, grazie alla combinazione fra le dinamiche tipiche di un’economia di guerra e l’aggiramento delle sanzioni. Il Cremlino ha la forza economica per continuare la guerra: e il calcolo di Mosca è che il tempo giochi a proprio favore, nella convinzione che il fronte occidentale finirà per sfaldarsi e che, con l’andare dei mesi, la maggiore “quantità” delle riserve a disposizione della Russia diventerà “qualità” sul campo di battaglia. Ma Putin ha già perso sul piano politico, qualunque sia l’esito finale sul terreno. Piuttosto, quello che un Putin indebolito teme maggiormente è una rivolta dei militari, che si contrappongono al suo “cerchio magico”. E combatte, ormai è chiaro, un conflitto su due fronti: quello esterno e quello interno, accomunati dal ruolo chiave dei militari e dei servizi di sicurezza. Per ora conta che il sostegno occidentale tenga: sfilarsi dalla partita ucraina equivarrebbe a una resa anche dell’Europa e degli Stati Uniti, dopo la quantità di aiuti militari e finanziari impegnati. La posta in gioco è diventata troppo alta per tutti.