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Attività

Oltre la crescita: nuovi equilibri per uno sviluppo sostenibile

    • Milano
    • 16 Luglio 2012

          Superare la crisi e tornare a crescere come in passato. È  la previsione – o  l’imperativo, l’auspicio, l’illusione, a seconda dei punti di vista – che a lungo in questi anni ha dominato il dibattito pubblico nei Paesi occidentali. Analisi, scenari, strategie d’azione. E come filo conduttore una metafora abusata e fuorviante: l’”uscita dal tunnel”. Quasi che, una volta finita la tempesta, tutto potesse tornare d’incanto al sereno: senza stravolgimenti di paesaggio, senza macerie, senza la necessità di ricostruire ex novo quanto distrutto. A ben vedere, c’era, dietro questa immagine del tunnel, il senso ultimo di un fraintendimento diffuso attorno alle origini, alla natura, alle ripercussioni della grande crisi globale. Interpretata all’inizio solo come un intermezzo breve tra un ciclo economico e l’altro,  poi come un fenomeno persistente ma transeunte e, solo da ultimo, come una trasformazione epocale, senza precedenti, per le generazioni contemporanee.

          Che niente dopo la crisi sarà mai più come prima è, quindi, convinzione comune relativamente recente. Così come recente, e comunque tardivo perfino tra gli specialisti, è l’avvio di una riflessione di alto profilo su un nuovo modello di società e di economia in grado di rimediare alle ferite della democrazia e del capitalismo occidentale di stampo novecentesco. Ci si interroga, dunque, sul concetto tradizionale di crescita. Si propongono inediti parametri di misurazione della ricchezza materiale e immateriale dei popoli. Ci si spinge a teorizzare una rinuncia deliberata alla crescita medesima. Eppure, a dispetto della grande varietà delle posizioni in campo e dello scontro dialettico che spesso si alimenta intorno ad esse, su un obiettivo pare esserci opinione prevalente: il dopo-crisi dovrà essere sostenibile. Anzitutto sotto il profilo della capacità di tenuta, in una prospettiva a medio-lungo termine, dello scenario globale che si determinerà se e quando la recessione avrà fine.

          Stabilità macroeconomica e finanziaria, ordine geopolitico, solidità democratica, coesione sociale ed equilibrio ambientale, equità nella distribuzione delle risorse: sono questi i tasselli che dovrebbero concorrere a formare il nuovo mosaico della sostenibilità. Un mosaico rappresentabile icasticamente come un triangolo equilatero con i tre cateti dell’economia, della società, dell’ambiente. Al centro di esso, ovviamente, i popoli, le persone, il capitale umano. Ai vertici, per definizione, le classi dirigenti, le quali dovranno inevitabilmente essere in grado di far tesoro degli errori commessi in passato, mantenendo ferma e costante le proporzione tra cateti, in funzione dell’interesse generale di un sistema auspicabilmente più duraturo e solido di tutti quelli che l’hanno preceduto.

          Si tratta, con evidenza, di una schematizzazione estrema che però, oggi più che mai, può risultare efficace per esemplificare le caratteristiche del nuovo paradigma di sviluppo sostenibile indicato sempre più diffusamente come l’alternativa verso cui tendere, soprattutto in un’Europa così duramente provata da una crisi che è politica e di prospettive, prima ancora che economica e di stabilità finanziaria. Un paradigma solo formalmente assimilabile a quelli omonimi sui quali ormai da decenni si formulano dichiarazioni d’intenti, a partire dai vertici internazionali su ambiente e cambiamenti climatici. Un paradigma orientato in primo luogo alla promozione piena del capitale umano e alla valorizzazione intelligente delle risorse disponibili, aperto all’innovazione, ispirato a una programmazione accorta delle strategie da mettere in campo per riformare i processi economici e sociali. Il tutto coerentemente con l’etimologia stessa della nozione di sviluppo – development, développement, desarollo – che evoca un processo in divenire e un “dispiegamento” delle potenzialità inespresse della società, assumendo una connotazione qualitativa ben più pregnante di quella solo quantitativa della crescita.

          Per una realtà come l’Italia  – da oltre un decennio bloccata in termini di produzione di ricchezza nazionale e da sempre alle prese con un deficit di promozione del proprio capitale umano, sociale, materiale e culturale – è esattamente su questo parallelismo tra crescita e sviluppo sostenibile che è indispensabile innestare una nuova missione-Paese nel quadro della auspicata risoluzione della crisi europea. Una missione che abbia finalmente il respiro dell’interesse generale e della costruzione paziente di futuro contro ogni tentazione di conservare l’esistente e di resistere a un cambiamento oramai inarrestabile.

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