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Attività

L’occidente dopo la crescita? La crisi del debito e il passaggio a nuovi fattori trainanti

    • Firenze
    • 18 Novembre 2011

          Tra le sfide che si pongono attualmente al mondo occidentale, emergono tre questioni fondamentali: (1) i trend di medio termine dell’economia globale, con particolare attenzione a nuove fonti di crescita, riequilibrio e “decoupling”; (2) la crisi del debito europea, prospettive e possibili soluzioni; e (3) l’energia verde come motore della crescita.

          La crescita c’è, ma è altrove: l’era delle “medie potenze”. Nel prossimo decennio l’andamento della crescita dipenderà da tre fattori basilari: le nuove fonti di crescita globale e la possibilità di un suo sganciamento fondamentale da Stati Uniti e Unione europea; la capacità della Cina di liberarsi dalla trappola del reddito medio; e la sostenibilità dei modelli di crescita. La ripresa si sta rivelando più complessa del previsto. Molti temono che ciò avrà un impatto sui tassi di crescita potenziale e che un decoupling duraturo sia improbabile.  Nel quadro del suo esercizio di mutua valutazione delle politiche economiche (Mutual Assessment Process),  il G20 sta mirando a conseguire un riequilibrio simmetrico, in un’ottica di miglioramento paretiano, in cui i paesi in surplus di bilancio si concentrano sull’aumento della domanda interna, mentre quelli in disavanzo spingono su riforme strutturali che diano impulso alla crescita potenziale e alle esportazioni. Ciò è in linea con gli obiettivi del settore privato, visto che gli amministratori delegati globali si concentrano in misura crescente sui consumatori del ceto medio delle economie emergenti a crescita rapida. Il riequilibrio è proprio ciò che prevede la teoria economica , poiché implica un afflusso dei capitali verso sud. In realtà, l’anomalia c’era prima, quando avveniva il contrario e il capitale affluiva a nord.    

          È importante guardare oltre i BRIC. Esiste una chiara differenziazione fra i paesi in termini di problematiche e di capacità ad affrontarle, soprattutto in relazione alla gestione dei flussi di capitale, di loro inversioni improvvise e della volatilità delle valute.  La differenziazione in termini di margini di manovra per l’attuazione di politiche anticicliche dipende da cinque elementi: la sostenibilità delle finanze pubbliche (basso rapporto debito/PIL, in media al 40% circa); la robustezza degli assetti di politica monetaria; mercati finanziari ben equilibrati e regolamentati che facciano da cuscinetto contro gli shock; tassi di cambio variabili (la fine della parità con il dollaro o de-dollarizzazione ha consentito la variabilità); e il raddoppio in un decennio degli scambi sud-sud.  Si tratta di un trend permanente, con ragioni di scambio particolarmente favorevoli per tutti i paesi produttori di materie prime.  

          La Cina continua a crescere a un tasso dell’8-9%. Il secondo e terzo anno di ogni piano quinquennale rappresenta tipicamente il punto più elevato nel ciclo degli investimenti, ma questa volta non è così, a causa della forte espansione dello scorso anno. La crescita dei consumi in termini reali è molto elevata, anche se la loro quota in rapporto al PIL rimane bassa. Nondimeno, la crescita aggregata può accelerare: la crescita dei consumi della popolazione urbana è già molto forte. È fondamentale, quindi, promuovere un maggior afflusso di popolazione nelle aree urbane – e l’attuale piano quinquennale pone notevole enfasi sulla realizzazione di nuove città.  Inoltre, è necessario un aumento della spesa pubblica a favore delle famiglie – reti di sicurezza, ambiente, e così via. Infine, le aziende di proprietà dello Stato devono aumentare i dividendi, per consentire una migliore distribuzione della ricchezza.  Nell’insieme, ciò produrrebbe un aumento della quota dell’amministrazione pubblica nel PIL dall’attuale 15% al 20-25%; oltre a dare impulso alla domanda interna.  

          Europa e Stati Uniti: tra debito elevato e bassa crescita. L’area dell’euro è l’epicentro della crisi globale. Le domande fondamentali che emergono di fronte a tale situazione sono tre: i responsabili delle politiche economiche dell’area dell’euro saranno in grado di gestire la crisi? È possibile migliorare l’area dell’euro in quanto area monetaria (nell’ipotesi che i policy-maker riescano a gestire la crisi)? E quali sono le prospettive (nell’ipotesi che non ci riescano)?

          Il problema è che, per decidere nel breve termine, è necessaria una chiara comprensione del lungo termine. In gioco abbiamo niente di meno che la forma futura dell’Unione monetaria europea. Non si tratta di decidere di come e se salvare la Grecia, ma piuttosto di come e se salvare il sistema in un contesto in cui la convergenza nominale attesa dall’euro si è trasformata piuttosto in una divergenza.   

          In un certo senso,  il decennio dell’euro ha generato il peggiore dei mondi possibili: economie meno competitive, Stati oberati dal debito, paesi bloccati in un tasso di cambio fisso. Se a ciò si aggiungono i due “peccati originali” generati dalla gestione della crisi (la minaccia di default sul debito pubblico e la minaccia di un’uscita dall’euro), il risultato è la scomparsa di un’attività europea privo di rischio e la liquidazione su vasta scala degli asset europei. Il pacchetto adottato il 26 ottobre è fallito poiché il Fondo salva Stati (EFSF) non può finanziarsi sui mercati, e quindi non è in grado di offrire una reale tutela. E la resistenza della BCE ad agire in modo energico e preventivo – motivata dal tentativo di contrastare l’avvento di una “dominanza fiscale” – crea soltanto confusione e ulteriore incertezza. I mercati si muovono più veloci della politica. È necessario trovare il modo di dare tempo all’euro e consentire ai paesi dell’area di adeguarsi. Gli eurobond sono diventati la condizione necessaria per l’esistenza della moneta unica. Resta da vedere se la Germania sarà pronta ad accettarli  e a quali condizioni. Chiaramente, siamo alla fine di un percorso. L’era dell’euro come lo conosciamo si sta avviando velocemente alla fine.  

          L’energia verde come fattore propulsivo della crescita: realtà o mito. L’energia verde ha vissuto il periodo di massimo splendore dopo il 2008, quando il nuovo Presidente degli Stati Uniti e la strategia europea 20/20/20 hanno ribadito l’impegno per la promozione degli investimenti nell’energia verde. Questo boom, tuttavia, si è attenuato lo scorso anno. Quello che era considerato uno strumento per creare posti di lavoro in modo sostenibile è ora un’industria ad alta intensità di capitale, che crea poca occupazione e necessità di abbondanti sovvenzioni pubbliche. In un contesto di generale di austerità fiscale, le prospettive di un settore fortemente dipendente dai sussidi appaiono incerte. Inoltre, abbiamo assistito ad una rinascita dell’energia “sporca”, a seguito dell’aumentata disponibilità delle riserve di petrolio – e soprattutto – di gas naturale che probabilmente genereranno più posti di lavoro rispetto alle energie rinnovabili. Gli investimenti nel settore dell’energia sono e continueranno ad essere robusti; è un settore trainato dalla demografia, dall’obsolescenza e da lunghi intervalli tra progettazione e produzione. Questo fenomeno è piuttosto uniforme tra diverse tecnologie e regioni. In particolare, si osservano due modelli: nelle economie mature, gli investimenti mirano a modificare il mix di asset al fine di migliorare la sicurezza dell’approvvigionamento; nel resto del mondo, gli investimenti sono trainati semplicemente dalla domanda.