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Attività

Investire in conoscenza per il progresso e per la produttività

    • Napoli
    • 14 Maggio 2010

          Il dibattito si è sviluppato lungo due direttive fondamentali: l’investimento in conoscenza e capitale umano da un lato e la ricerca e l’innovazione dall’altro, due determinanti della crescita e della competitività che, insieme, rappresentano la leva fondamentale della sopravvivenza, della ripresa e delle sfide del futuro.

          Dal confronto con il resto del mondo il sistema italiano dell’istruzione e dei relativi tassi di  rendimento non sembra occupare, come livello e come tendenza, le prime posizioni in graduatoria. Si assiste inoltre al paradosso per cui a un più basso livello di istruzione non corrisponde una più alta remunerazione della stessa, circostanza che innesca un circolo vizioso di disincentivo all’investimento nonostante il tasso di rendimento privato, in Italia, resti comunque elevato (pari a circa il 9%). Tre i quesiti fondamentali affrontati: in quali tipologie di capitale umano investire, quando investire in conoscenza e, soprattutto, come aumentare i rendimenti dell’investimento. La domanda di lavoro si sta sempre di più orientando verso competenze generali, trasversali, flessibili, trasferibili, non “compartimentalizzate” e non “di routine”: di qui la crescente importanza attribuita alle capacità relazionali, imprenditoriali, propositive e adattative, all’abilità di costruire e gestire strategicamente network altamente qualificati, all’interdisciplinarietà, all’internazionalità e alla cultura “del diverso”.

          Recentemente sono state le industrie creative, culturali e di servizi avanzati ad aver raggiunto i maggiori tassi di crescita. Il rendimento appare elevato già in età molto giovane, addirittura pre-scolare: occorre quindi “riportare indietro le lancette dell’orologio” e intensificare il processo di anticipazione degli investimenti. Infine, è urgente intervenire non soltanto sul fronte della quantità, ma anche e soprattutto su quello della qualità della formazione. Quest’ultima trova imprescindibile fondamento nel supporto dell’intero sistema – formativo, imprenditoriale, socio-culturale e famigliare – allo sviluppo di forti aspetti valoriali e motivazionali e al superamento delle diffuse logiche che attribuiscono all’investimento in capitale umano un ruolo puramente strumentale.

          Sono stai individuati alcuni obiettivi fondamentali su cui concentrare gli sforzi: una maggiore cultura del merito (che rappresenta il principale incentivo all’investimento), la riforma del sistema universitario e dei dottorati di ricerca, la creazione di infrastrutture per la ricerca, l’attrazione dei talenti e il rientro del capitale umano, la diffusione di sistemi a maggior carattere di internazionalità e più idonei a generare soft skills (come i campus e i college), la rimozione di impedimenti e ostacoli burocratici (come le difficoltà legate all’ottenimento dei visti), la veicolazione di un maggiore contenuto informativo e “segnaletico” da parte dei voti e dei titoli di studio, la maggiore “permeabilità” tra mondo accademico e mondo imprenditoriale e tra professione e formazione. Una maggiore cultura del merito non può non accompagnarsi a meccanismi di selezione (ad esempio nell’ambito dei concorsi) e a modelli di costruzione dei ruoli e delle carriere più chiari e più trasparenti.

          È inoltre fondamentale l’individuazione di un sistema di valutazione e controllo dei risultati più oggettivo e più efficace. La riforma universitaria dovrebbe prevedere logiche meno centralistiche e più imprenditoriali (le università con maggiori capacità di attrazione dovranno poter catalizzare risorse aggiuntive), nonché una progressiva differenziazione degli istituti in Research e Teaching Universities: le prime, in numero contenuto, come poli di eccellenza vocati alla ricerca e all’offerta di Lauree Magistrali e di dottorati qualificati, le seconde, in numero più elevato, orientate alla formazione professionalizzante di primo livello. Dunque, non un diverso ordinamento di priorità o una riduzione del numero di istituti, ma una diversificazione delle relative funzioni. Per i dottorati di ricerca, che in Italia appaiono spesso troppo deboli e legati alle logiche di riproduzione della classe accademica, sarebbero al contrario auspicabili una maggiore concentrazione dell’offerta in un numero ridotto di istituti di eccellenza e, al contempo, una maggiore sinergia con la frontiera tecnologica della ricerca e del mondo imprenditoriale.

          È poi fondamentale creare le condizioni di contesto necessarie non tanto a evitare il fenomeno del “brain drain”, ma a garantire un “brain balance” in termini di grandi flussi dei talenti. Sul fronte della ricerca, il modello “PMI e distretti” appare meno attuale e competitivo: è necessaria una nuova generazione di politiche per la ricerca e l’innovazione, più aderenti alle esigenze e alle caratteristiche del sistema industriale nazionale, più selettive, in grado di costruire una visione meritocratica e strategica delle aree a potenziale più elevato, che punti sugli incentivi fiscali, ma anche su una serie di incentivi organizzativi a costi economici bassi. Le risorse disponibili andranno infatti inevitabilmente riducendosi e risulterà sempre più indispensabile esplorare modalità di sostegno low-budget, ad esempio attraverso una maggiore efficienza degli asset che la pubblica amministrazione già utilizza per l’erogazione dei suoi servizi fondamentali. Quest’ultima risulta ancora caratterizzata da un approccio prevalentemente burocratico-regolatorio e da una classe dirigente di stampo giuridico-formale per lo più inadeguata a gestire il processo dell’innovazione.
           
          Si è discusso sull’opportunità di creare advisory-board misti, di realizzare un “catalogo” delle competenze e dei prodotti della ricerca (che faciliti il match tra domanda e offerta) e di incentivare un maggiore inserimento di personale di ricerca qualificato nelle piccole e medie imprese. Si assiste quindi alla progressiva affermazione di un nuovo modello di innovazione, aperto, inteso come eco-sistema in cui tutti gli attori coinvolti (università, imprese, banche, fondazioni bancarie ed enti no-profit) interagiscono continuativamente, sempre più orientato al paradigma dell’open innovation. È stata infine proposta la creazione di una Fondazione Nazionale per le Scienze (FNS), ovvero di una struttura indipendente che operi secondo criteri di selezione internazionali, attraverso la quale attribuire un marchio di qualità alle proposte progettuali e reindirizzare le logiche distributive dei finanziamenti pubblici.

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