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Attività

Innovazione e dinamiche di mercato nella società della conoscenza

    • Roma
    • 18 Marzo 2015

          Una rivoluzione ancora in atto, quella di Internet. Con grandi questioni aperte di natura regolatoria – da quella fiscale alle norme sulla privacy, dal copyright alla net-neutrality – e di carattere economico come la forte necessità di mutare i modelli di business. L’era, per alcuni, è quella della quinta rivoluzione ICT che non toccherà solo il sistema industriale, ma anche l’organizzazione degli Stati. E su questo fronte, peraltro, potrebbe anche diventare un’opportunità unica per vincere battaglie decisive per il pianeta come inquinamento e povertà.

          Ma se Internet è veloce per “nascita”, altrettanto importante è la sua natura combinatoria: se con la cartografia si aiutano gli automobilisti, significa che la commistione dei linguaggi è un dato positivo. E la tecnologia degli applicativi, immaginata per un ormai acquisito concetto di mobilità, accresce il mondo dei servizi legati alla rete la cui efficacia e spinta rivoluzionaria offre esempi importanti. Uno fra tutti: quello della salute. Una mappa del genoma disponibile a 20 dollari cambia la medicina e l’applicazione delle cure. Impatta poi fortemente sul concetto di privacy e influenza la gestione del mercato del lavoro e delle risorse umane.

          Oltre che veloce, la rete è globale per sua natura intrinseca. Eppure viene gestita in maniera diversa in Asia, negli Stati Uniti e in Europa. L’Asia, pur con problemi normativi e di censura, ha registrato uno straordinario incremento legato ad Internet: le prime quattro aziende al mondo oggi sono asiatiche. Negli Usa, dove tutto è cominciato, esiste un’apertura totale nei confronti del web: milioni di consumatori americani condividono la stessa normativa, la stessa lingua e anche gli stessi linguaggi. Diversamente accade in Europa dove il dibattito normativo è ancora confuso e dove c’è meno vivacità sul fronte della crescita di nuove aziende, con un conseguente ritardo competitivo rispetto agli altri due blocchi geopolitici.

          È soprattutto sul fronte regolatorio che si concretizza il divario tra Unione europea e Stati Uniti. Nel periodo 2000- 2005 la FCC americana ha liberalizzato l’economia di Internet e per quindici anni Internet è stato svincolato dalle regole delle TLC. Ma la recente decisione del 26 febbraio della FCC sulla net-neutrality ha provocato una vigorosa protesta delle società di telecomunicazioni e parecchie perplessità europee. Per molti, però, la scelta è positiva, un gesto che restituisce una parte di regolamentazione che per quindici anni era stata inesistente. Quel che l’Europa sembra non capire nell’approccio alla regolazione – hanno osservato alcuni – è la posta in gioco: il passaggio da un consumo di massa a forme di consumo personale. Lo stesso Governo italiano è impegnato nel dare una direzione diversa alla politica europea soprattutto sui temi della net-neutrality e in generale sulle intese in materia regolatoria nonché esprimendo contrarietà per lo spostamento al 2018 della decisione sul roaming.  

          La stasi dell’accordo TTIP su questi temi è un’ulteriore conferma della distanza tra europei e americani, un esempio della difficoltà di far collimare l’economia reale del Vecchio Continente e quella d’Oltreoceano. Perché infine è di economia reale che si tratta: attraverso internet si sperimenta un processo di distruzione creativa. Con opportunità e rischi. Crescono i conflitti tra operatori di telecomunicazioni e over the top, non è ancora risolto il problema del copyright tra editori e aggregatori di notizie, esiste un rischio reale di concentrazione oligopolistiche o di situazione di monopolio.

          Di fronte a questo quadro serve una scelta sulla regolazione per molti deve essere una regolazione “leggera”, non troppo invasiva e non eccessivamente lassista. Ma a che livello, ci si è chiesti ripetutamente: nazionale, europeo, globale? Generale la convergenza sul livello europeo, anche perché per gestire normative globali si dovrebbero creare organismi creati ad hoc e soprattutto in grado di far rispettare improbabili modelli “planetari”.

          Sul fronte fiscale ad esempio va cambiato il parametro di interpretazione dell’economia digitale. Differentemente dal secolo industriale, l’era della società della conoscenza non prevede concetti come magazzino o ammortamento e altri elementi propri dell’industria manifatturiera. Ecco che il fisco deve, quindi, immaginare un diverso modello con cui confrontarsi.

          Sempre all’ambito regolatorio viene attribuito il ritardo del divario digitale italiano. Ad esempio la legge aveva fermato lo sviluppo delle televisioni via cavo, consentendo l’uso di un solo canale e creando, di fatto, un duopolio. Oggi, in Italia a differenza di altri Paesi, non si sono sviluppati importanti network via cavo.

          Mentre all’estero si parla ormai di gigabyte nelle case e negli uffici, in Italia il divario digitale è ancora una realtà. E il problema infrastrutturale resta centrale, con varie proposte sul tappeto, compresa quella del Governo. Secondo alcuni servirebbero investimenti per venticinque miliardi per mettere al passo con l’Europa un Paese che continua ad andare a due velocità: da una parte gli imprenditori non vogliono cambiare, dall’altra le start up vengono ostacolate in una sorta di demonizzazione dei nuovi attori. Sul fronte delle infrastrutture si è anche fatto l’esempio delle torri che – tra telecomunicazioni e broadcast – sono 40 mila: in realtà ne basterebbero 30 mila e si potrebbero così liberare importanti risorse.

          Resta centrale la carenza di attrattività per gli investitori esteri dovuta alla frammentazione della domanda pubblica e alla poca certezza normativa. Eppure non c’è mancanza di domanda sulle tecnologie. È però vero che l’eccessiva compressione dei costi preclude qualità e porta anche i giovani cervelli a lasciare il Paese. Ancora oggi – un po’ per paura un po’ per amore del passato- si protegge il vecchio senza sostenere il nuovo.  Non è digitalizzando i certificati che si entra nel futuro. È piuttosto il futuro che non deve aver più bisogno di certificati. E, in più, le varie PA non riescono a parlarsi per via digitale in quanto adottano sistemi informativi diversi: a ciascuno il suo, senza per ora possibilità di integrazione

          Il Governo italiano ha allo studio una serie di incentivi, primi fra tutti proprio quelli per potenziare la domanda pubblica. Inoltre, lancerà a breve il progetto Log in con l’obiettivo di sostenere una sempre maggiore diffusione della realtà digitale. Insieme alle ineludibili esigenze di sviluppo della banda larga – in cui anche il privato viene invitato a fare la propria parte – l’ottica dell’Amministrazione è quella di tenere conto anche dagli interessi dell’utente e non solo dell’infrastruttura: in questo quadro resta strategico, come dimostra l’esperienza americana, il tema della usabilità.

          Infatti, le piattaforme digitali sono strategiche non solo per aprire nuovi mercati, ma anche per entrare in quelli tradizionali come dimostrano il sistema delle prenotazioni alberghiere e in generale la maggior parte del sistema turistico e dei viaggi. Sono anche portatrici di sensibili vantaggi per l’utente: in Francia un milione di cittadini hanno scelto l’azienda di luce e gas su una piattaforma con un 25% di risparmio. Attraverso una app si vede quanto si consuma. Non solo un nuovo servizio per il cittadino utente, ma anche un modo innovativo per sviluppare la competitività del settore energetico. Tra i modelli di business in mutamento è stato ricordato anche quello di Amazon che, per consegnare la merce non usa più il vecchio e tradizionale postino, ma si serve di centri di raccolta. Per incrementare questi nuovi modelli di business serve un maggiore utilizzo del venture capital sull’esempio degli Stati Uniti dove sono stati di recente investiti 40 miliardi. È anche opportuno cambiare mentalità rispetto al fallimento, sgravandolo di ogni concezione di colpa e inquadrandolo come un tentativo non andato a buon fine – ma comunque utile – per l’attività imprenditoriale cui si richiede sempre più coraggio.

          Altro fattore di cambiamento sia per il settore istituzionale che per quello aziendale è senza dubbio il passaggio al cloud e la questione della gestione dei dati in termini di privacy e riservatezza, una battaglia dura da combattere soprattutto sui social network. Postare una foto su Facebook ormai vuol dire rinunciare ad essere riservati, senza dimenticare la grave questione del furto di identità che – secondo studi recenti – vale economicamente 1,3 miliardi di euro. E il dibattito sul diritto all’oblio nonché sul tempo di conservazione dei dati resta della massima rilevanza e ancora non chiuso completamente.

          Quel che è certo è che nell’era digitale, in un modello di lungo termine, i Big Data saranno uno strumento strategico non solo per aumentare la competitività delle imprese, ma anche per gestire meglio le realtà istituzionali e per informare in maniera più efficace i cittadini. È quello che sta facendo l’Istat – in collaborazione con le istituzioni europee – ricavandone una migliore stima dei fenomeni e un incremento della qualità informativa. Ma sui Big Data sono ancora molti i passi da fare perché, se è vero che sono il petrolio del futuro di una società della conoscenza, allora l’Europa ne deve essere maggiormente consapevole. Solo così si potrà evitare che tutto resti soltanto in mani americane: sarebbe come mettere costantemente carburante in automobili altrui.