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Attività

Democrazia e leadership nella nuova agorà digitale

    • Roma
    • 4 Dicembre 2017

          Fine delle asimmetrie informative, assoluta neutralità della rete, abolizione di ogni intermediazione e realizzazione della democrazia plebiscitaria erano solo alcune delle promesse della rivoluzione dei Big Data. Oggi però si è passati da un diffuso tecno-ottimismo ad una visione catastrofista, fatta di concentrazione di mercato, manipolazione e controllo politico, sino alla considerazione dello sviluppo di internet come un pericolo per le democrazie. Si tratta di un fenomeno da analizzare partendo da ciò che è successo in un lustro di tempo, pari ad un’epoca.

          La rete è patrimonio di tutti o ricchezza in mano a poche aziende, potenti come gli Stati, capaci di utilizzare sofisticati modelli matematici a fini politici e di business? Chi gestisce e possiede gli algoritmi? Davvero ci si trova di fronte ad una gigantesca illusione che ha finito per accrescere le diseguaglianze?

          La risposta adeguata a questi interrogativi risiede in un’analisi che, partendo dalla realtà, rimetta al centro della discussione il libero arbitrio. Se da un lato gli algoritmi rischiano di presentarsi alla stregua di una moderna Ananke, è anche vero che il protagonista deve rimanere l’uomo, con la sua creatività, intelligenza e libertà.

          E partire dalla realtà vuol dire anzitutto constatare come, con l’avvento della società dei dati, si sia imposta l’era della post verità: è il passaggio dall’oggettivo al soggettivo, dalle competenze specifiche al sentito dire, un mondo in cui ciascuno pensa, nello spazio di un click onnipotente, di possedere tutto, dalla filosofia al diritto, dalla psicologia alla medicina. È l’epoca delle fake news, bisogno atavico di risposte semplici a problemi complessi, delle notizie create ad arte con scopi commerciali o, peggio, per manipolare il consenso. È l’imporsi della percezione individuale come capacità prevalente, dell’emozione sul ragionamento, della doxa sull’episteme. Si tratta di un processo di soggetivizzazione della conoscenza avvenuto non in maniera pacifica e lineare, come era stato previsto, ma attraverso l’implosione di un antico sistema valoriale senza la creazione di un modello alternativo a cui far riferimento.

          È proprio a fronte di questo vuoto che le nuove leadership sono chiamate ad una profonda assunzione di responsabilità, per attrezzare strumenti interpretativi adeguati alla complessità del momento. È evidente che la demonizzazione della rete non rappresenta la risposta adeguata – anzi rischierebbe di mettere le democrazie in una situazione di svantaggio rispetto ai sistemi autoritari, i quali investono sull’uso dei dati per gestirne il potere. Ma è anche vero che si rendono necessarie, in sede di comunità internazionale, misure regolatorie e sanzionatorie in grado di  riequilibrare il mercato, di evitare monopoli nella fornitura dei dati e di garantire gli utenti in termini di trasparenza e privacy, scongiurando l’ingenuo processo dell’autoregolamentazione.

          La vera sfida è poi di carattere culturale: capacità di creare una narrativa alternativa, autorevolezza e controllo delle fonti sono tutti valori su cui investire per formare anticorpi utili a riconoscere le manipolazioni e a porvi rimedio. Oggi più che mai, le classi dirigenti sono chiamate a non cavalcare la paura del futuro e ad evitare di persistere in uno sterile pessimismo foriero di smarrimento o, peggio, di disimpegno narcisistico.

          In ultima analisi, sembrerebbero non esistere scorciatoie: occorre dare un significato reale al concetto di trasparenza, verificarlo costantemente e metterlo al riparo da false promesse di libertà. Tutto ciò per salvaguardare i cittadini da una mera illusione di partecipazione e scongiurare la possibilità che aziende private occupino progressivamente spazi caratteristici e vitali delle istituzioni pubbliche. Diversamente si assisterà al definitivo affermarsi di Ananke su Libertas, dei blogger sui leader, degli influencer sugli scienziati.

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