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Attività

Uscire dalla crisi finanziaria e sostenere l’economia reale

    • Napoli
    • 14 Maggio 2010

          Il salvataggio in extremis della Grecia da un possibile default apre una serie di questioni urgenti sul futuro della moneta unica, dell’Europa come entità politica e, più in generale, del rapporto tra finanza ed economia reale.  La crisi, infatti, ha posto sul tavolo come problemi non solo la precaria situazione economica e sociale della Grecia – che dovrà attraversare, inevitabilmente, un periodo di profonda e prevedibilmente dolorosa ristrutturazione – ma anche la scelta delle azioni da intraprendere per prevenire un possibile contagio verso altri paesi europei. Contagio che potrebbe innescare rischi per l’Europa come progetto politico e soffocare una ripresa economica mondiale . In questo senso, e anche per prevenire il temuto “double-dip”, l’accento va posto sulle lezioni che, dalla crisi greca, è possibile trarre riguardo all’identità e al funzionamento delle istituzioni europee.

          Da un lato, emerge l’esigenza di ridisegnare e completare l’assetto politico e di governance dell’Europa anche contemplando l’ipotesi di introdurre nuove strutture istituzionali quali un “Fondo Monetario Europeo” o un organo centrale di vigilanza sui conti dei paesi membri che, con più ampi poteri rispetto al modello attuale, consenta un più efficace monitoraggio dei dati e una più stringente disciplina fiscale. Dall’altro lato, risulta confermato il ruolo chiave svolto dalla Banca Centrale Europea a cui dovrà essere garantita la possibilità di interventi autonomi, flessibili e tempestivi in situazioni di tensione finanziaria, senza che ciò ne snaturi la missione originaria o incrini il patrimonio di credibilità accumulato sinora.

          Allargando l’orizzonte dal contesto europeo, il livello di analisi si sposta sulle origini delle crisi finanziarie che appaiono non come elementi casuali ma, piuttosto, come la necessaria conseguenza di fenomeni economici e sociali di più ampia portata. In particolare, le crisi che stiamo attraversando possono essere considerate il frutto della globalizzazione o, meglio, di errate politiche di gestione della globalizzazione. L’accesso, infatti, ai mercati internazionali di merci e capitali esteso, nel giro di pochi anni, a paesi emergenti con una popolazione di circa tre miliardi di persone, ha messo in collegamento e integrato modelli economici estremamente disomogenei producendo ampi squilibri nelle bilance commerciali e nei flussi dei capitali e del risparmio.

          In questa prospettiva, le recenti crisi finanziarie sono inevitabili fenomeni di assestamento e di ribilanciamento in grado di porre una seria ipoteca su un modello di crescita che, soprattutto per i paesi sviluppati, si è basato sinora prevalentemente sul debito. Nel nuovo contesto, si assisterà, al contrario, a incisivi processi di deleveraging da parte degli Stati che, nella fase corrente sono costretti a incrementare significativamente i propri deficit, ma che dovranno successivamente fronteggiare l’accresciuto indebitamento con sensibili tagli alla spesa pubblica. La minor spesa farà venir meno una delle leve di stimolo alla crescita in mano ai governi nazionali, rendendo necessaria l’individuazione di nuovi motori alternativi di crescita e sostegno all’economia reale.

          La crescita dei paesi emergenti, in questo quadro, appare come il candidato naturale a sostituire l’effetto trainante sinora rivestito dalla spesa pubblica. Tuttavia, se la crescita dei paesi in via di sviluppo appare robusta anche in questa fase di rallentamento e contrazione di molte economie avanzate, stanno progressivamente affiorando taluni elementi di fragilità strutturale e squilibrio – incluso il rischio di “surriscaldamento” dell’economia e di possibili “bolle” – che potrebbero minare l’ulteriore sviluppo delle economie emergenti nel medio-lungo termine.

          Problematico appare anche il ruolo di supporto alla crescita e di cerniera tra finanza ed economia reale rivestito da banche e intermediari finanziari. Gli operatori del credito sono stati al contempo  causa e vittime della crisi finanziaria e, in questa fase, è chiesto loro, in modo peraltro contradditorio, di supportare la ristrutturazione e, ove possibile, la crescita delle imprese, ma, al contempo di irrobustire i propri livelli di patrimonializzazione con un conseguente effetto di deleveraging e di riduzione del credito erogato. A questo si aggiunge un ulteriore elemento di instabilità per gli intermediari finanziari, rappresentato dalla prolungata incertezza sui nuovi assetti regolamentari a livello nazionale e internazionale per il settore. In questo contesto, risulta opportuno ripensare o introdurre meccanismi di supporto e di garanzia da parte dello Stato volti a favorire l’erogazione del credito in una fase in cui, d’altro canto, per il congiunto effetto di Basilea II e della crisi economica, molte imprese vedranno ridursi il proprio rating e avranno più difficile e limitato accesso ai canali di finanziamento esterni.  

          Se il quadro è, quindi, quello di un’attesa riduzione della spesa pubblica, della profonda ristrutturazione di alcune economie, di squilibri nella robusta ma talvolta disordinata crescita espressa dai paesi emergenti, di accentuata volatilità dei mercati finanziari e di persistente fragilità del settore bancario, riprende più pressante il dibattito sugli attuali paradigmi economici di crescita e sulla loro sostenibilità.

          In particolare, l’innovazione diventa una possibile risposta di uscita dalla crisi finanziaria. Solo una innovazione incisiva e di ampia portata può essere in grado di creare nuovi settori che, a loro volta, diventino motori di stimolo per il resto dell’economia. L’attenzione dei governi deve, quindi, rivolgersi alle condizioni di contesto e di competizione che possono facilitare l’innovazione, anche nell’ambito dei paesi emergenti o, addirittura, di quei paesi che sinora sono rimasti ai margini dei processi di sviluppo e scambio internazionale.

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