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Attività

Quali nuove forme di solidarietà sociale in Italia?

    • Roma
    • 22 Aprile 2009

          Per molto tempo trascurata in quanto “parola nascosta della triade rivoluzionaria”, la nozione di fraternità – o di solidarietà – diventa oggetto di riflessioni collettive e di proposte politiche concrete nell’attuale congiuntura storica e culturale, segnata – come è noto – dalla crisi economica globale, nonché da una più profonda crisi di identità di cui, secondo molti, sono affette le odierne società occidentali. A fronte degli evidenti insuccessi mietuti da una diffusa ideologia economicistica, si avverte più che mai l’esigenza di promuovere iniziative politiche che, con la partecipazione di diversi soggetti pubblici e privati, riducano e prevengano la povertà (assoluta e relativa) e il disagio (non solo economico) che colpiscono le fasce più fragili e meno tutelate della popolazione. L’obiettivo dichiarato è di “fare emergere i bisogni sociali prima che diventino emergenze sociali”.

          Innanzitutto occorre fotografare la realtà in questione nel modo più accurato possibile. Chi e quante sono le persone povere che hanno diritto ad aiuti ed agevolazioni? Come le si può raggiungere? Gli indicatori di situazione economica attualmente in vigore sono perfezionabili (si discute dell’efficacia o meno del sistema ISEE), ma simili meccanismi di rilievo non sarebbero in ogni caso sufficienti per gettare luce sui “coni d’ombra”, ossia sulle aree di povertà che sfuggono alla conoscenza delle istituzioni pubbliche. Si auspica pertanto un potenziamento della rete capillare di sussidiarietà territoriali, che in Italia è sostenuta dalle comunità locali, da numerose organizzazioni no profit, nonché dalle diocesi e da diversi istituti religiosi e laici. Inoltre, si suggerisce di affidare a consulenti scientifici qualificati il compito di vagliare, di elaborare e di sintetizzare il sapere raccolto empiricamente, per elaborare politiche pubbliche adeguate ai bisogni primari e secondari in perenne trasformazione.

          Quale ruolo spetti allo stato nell’ottica di un auspicato rinnovamento del sistema del welfare è argomento di dibattito. Vi è chi valuta positivamente l’impostazione attuale del welfare italiano, fondato su un’efficace combinazione di pubblico, privato e “terzo settore” (INPS, pensioni di invalidità, Chiesa, volontariato, fondazioni…), e propone pertanto riforme che affidino allo stato la mansione, oltre e più che di erogatore delle risorse pubbliche, di coordinatore strategico delle iniziative promosse da altri soggetti. I provvedimenti discussi includono: interventi finanziari (tra cui la Social Card) ed esenzioni fiscali che garantiscano livelli minimi di sussistenza ai più bisognosi, localizzazione dei servizi assistenziali e sanitari, “offerta plurale di risposte alla non-autosufficienza”, de-burocratizzazione, incentivi normativi e 5 per mille per agevolare il settore del no profit.

          Di converso, vi è chi ritiene che quello italiano sia un sistema di welfare largamente desueto il quale, imperniato com’è sul modello della fabbrica fordista e sulla centralità del maschio adulto, carica le famiglie di oneri impropri, a discapito dei tassi di natalità (rispetto ai quali l’Italia detiene un record negativo in Europa). Tenuto conto che “la capacità di costruire un sistema di welfare che consenta la crescita del tasso di natalità è uno strumento nelle mani dei legislatori”, come dimostra l’esperienza francese, si propone una politica di aiuto massiccio alle famiglie, in particolare per quanto riguarda la conciliazione di lavoro femminile e maternità, mirata in ultima istanza a distribuire in modo più equo le opportunità – incluse, come è ovvio, le opportunità di accesso all’istruzione e al mondo del lavoro (anche per i quattro milioni di stranieri stabilizzati in Italia).

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