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Attività

L’Italia nel prossimo decennio: dall’emergenza alla crescita

    • Firenze
    • 18 Novembre 2011

          L’evoluzione della crisi conferma che bisogna superare terapie ex post e localizzate, che affrontano le emergenze mano a mano che si presentano paese per paese. Serve, invece, una strategia complessiva, basata su tre pilastri. Il primo è l’adozione di programmi di risanamento a livello nazionale. Il secondo è la costituzione di fondi e istituzioni comuni con più risorse e con una governance più efficace. Il terzo è l’affermazione di un ruolo più attivo della Banca centrale europea. Tutto ciò evidenzia la necessità di coraggiose soluzioni politiche a livello europeo. Bisogna accettare la sfida tedesca di un cambiamento del trattato, che comporti maggiore integrazione politica e una più severa disciplina fiscale. Allo stesso tempo, però, bisogna anticipare e rafforzare la mutualità tra gli stati membri. Anche quando la crisi sarà superata, molto difficilmente si potrà tornare ai livelli precedenti di sviluppo e di benessere. Non ci si potrà più permettere uno stato sociale così ricco.  È inesorabile una riduzione degli standard di vita nei prossimi decenni. Per quel che riguarda l’Italia, la crisi non ha cambiato le priorità di politica economica. È cambiata l’urgenza delle decisioni da assumere. Inoltre, la crisi ha minato i punti di forza su cui il Paese si regge. Le banche sono più esposte e devono affrontare seri problemi di liquidità. Sono aumentati il precariato e la disoccupazione giovanile. Il debito pubblico è rimasto alto. La stagnazione è diventata la realtà. La cassa integrazione protegge i cittadini ma non favorisce una efficiente riallocazione delle risorse.

          Anche gli ambiti della politica industriale si sono notevolmente ridotti. Le risorse pubbliche a disposizione sono limitate. E sono disperse in una pluralità di interventi minori a sostegno delle imprese (91 tipi di aiuti a livello statale e 1216 aiuti a livello regionale). Il problema è che l’operatore pubblico non ha le informazioni per allocare efficientemente le pur poche risorse ancora disponibili. Né maggior fortuna sembra assistere il passaggio dallo stato erogatore allo stato promotore di iniziative private e partnership pubblico-private. La politica industriale dovrebbe piuttosto cambiare oggetto: non le cose (comparti, imprese), ma i comportamenti, sostenendo gli investimenti italiani all’estero e quelli stranieri in Italia. Rimane poi aperto il grande tema della crescita dimensionale delle imprese. Invece di insistere con distretti e contratti di rete, che replicano l’esperienza dei patti territoriali, bisognerebbe cambiare l’impalcatura normativa e regolatoria che abbassa la dimensione di impresa e favorire la mobilità dei mercati.

          Nel frattempo, aumentano disuguaglianze e disparità sul mercato del lavoro. Crescono il tasso e la durata della disoccupazione. Quella di lungo periodo diventa drammatica perché genera perdita del capitale umano e allontanamento dal mercato del lavoro. Le protezioni offerte dallo Stato sono insufficienti. Servirebbero invece sussidi di disoccupazione, purché accompagnati dall’obbligo della ricerca attiva di un impiego. A ciò si aggiunge il problema di un alto livello di disoccupazione giovanile, pari al 30 per cento. Inoltre, il 20 per cento dei ragazzi è completamente inattivo: non studia né lavora. Ciò produce conseguenze negative a medio e lungo termine. Un basso livello di formazione professionale riduce opportunità di lavoro e salari ancora a vent’anni di distanza. Continuare a studiare per acquisire un titolo sul mercato del lavoro sarebbe fondamentale. Eppure in Italia, da un lato, la percentuale di laureati è notevolmente inferiore a quella dei paesi dell’area Ocse. Dall’altro, spesso il processo educativo forma competenze superiori a quelle poi richieste sul lavoro. Infine, soltanto il 20 per cento degli studenti combina studio e lavoro. Così si aumenta il divario con il mondo dell’industria.