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Attività

La riforma elettorale che serve all’Italia

    • Roma
    • 17 Aprile 2013

          Il nesso, sulla carta, è quello elementare di causa-effetto. Meno elementare, invece, è la comprensione della sequenza attraverso cui i termini della questione si articolano. Più semplicemente: il corpo elettorale è diretta e fedele emanazione della legge che disciplina il voto oppure quest’ultima è poco determinante ai fini del risultato del voto medesimo e della relative divisioni all’interno dell’elettorato? È anzitutto a partire da questo interrogativo di sistema che si sostanzia oggi il dibattito intorno alla riforma elettorale che serve all’Italia. Un dibattito certo non nuovo, originato negli anni scorsi dalla diffusa convinzione dell’inadeguatezza del cosiddetto “porcellum” e scandito negli ultimi due mesi dalla complessità dell’analisi del voto del 24-25 febbraio 2013. Sullo sfondo il progressivo esaurimento del bipolarismo figlio della seconda Repubblica e la nuova ripartizione, tendenzialmente  tripolare, del corpo elettorale, con tutto ciò che ne consegue in termini di governabilità del Paese in quella che sempre più si manifesta come la peggiore crisi democratica, economica e sociale della storia repubblicana.

          Che questa stessa crisi possa essere stata esacerbata da regole d’ingaggio inadeguate o bizantine è opinione pressoché prevalente. Bizantine perché, ad esempio, prevedono nei fatti come due leggi elettorali distinte per la Camera e per il Senato e ciò a dispetto del bicameralismo perfetto italiano sancito dalla Costituzione. Inadeguate perché, in epoca di sempre più marcate istanze di allargamento della partecipazione democratica, le liste bloccate paiono andare nella direzione esattamente inversa, sottraendo ai cittadini un diritto di scelta solo parzialmente “risarcito” dagli strumenti di selezione estemporanea (e parziale) escogitati da alcune forze politiche per ovviarvi, dalle elezioni primarie alle consultazioni via web.

          Ancor più genericamente, la riflessione sulla legge elettorale utile a superare l’impasse nella quale sembra al momento aggrovigliarsi il sistema italiano sconfina nel terreno della cultura politica del Paese. E se tutte le grandi antologie del diritto costituzionale concordano nel considerare il funzionamento delle istituzioni direttamente collegato, appunto, alla cultura politica che le esprime – basti pensare, da questo punto di vista, alle differenti declinazioni del presidenzialismo tra Nord e Sud America –  non v’è dubbio che il caos istituzionale e politico derivante dall’esito elettorale possa essere letto anche come il riflesso di una cultura che ormai da anni fatica a trovare il bandolo della matassa tra democrazia decidente, accountability della classe dirigente, rappresentatività, espressione della sovranità tra i livelli istituzionali (locale, nazionale, sovranazionale).

          In quest’ottica, la legge elettorale può smettere di essere interpretata come la madre (o come il prodotto) di tutti i problemi per collocarsi, invece, nel novero delle riforme di sistema indispensabili per garantire stabilità alla democrazia italiana (insieme, ad esempio, al tema del funzionamento dei partiti politici, ai regolamenti parlamentari, ai rapporti tra diversi livelli di governo). 

          Da questo punto di vista, quale che sia la soluzione individuata – da un ritorno al “mattarellum” corretto dello scorporo (come indicato nel documento dei cosiddetti “saggi” nominati dal presidente Napolitano) a un modello più assimilabile a quello tedesco – anzitutto due sono gli obiettivi verso cui tendere: da un lato la governabilità, richiesta peraltro a gran voce dal mondo economico e produttivo alle prese con una recessione senza precedenti; dall’altro lato, una sempre più cogente rappresentatività, reputata argine irrinunciabile alla deriva populista e alle istanze di democrazia diretta presenti in larghe fasce dell’opinione pubblica. Negli ultimi vent’anni nessun sistema elettorale è riuscito ad assicurare il perseguimento di entrambi questi obiettivi. Raggiungerli ora diventa, dunque, imperativo categorico, priorità non più rinviabile. Pena il definitivo sgretolamento di un’architettura politica e istituzionale mai così traballante e precaria.