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Attività

Quale futuro per il capitalismo italiano. Il ruolo dei giovani in un mondo diventato più competitivo

    • Milano
    • 24 Ottobre 2013

          L’accelerazione della storia e la sua evoluzione in chiave multipolare e reticolare hanno determinato una mutazione del capitalismo: l’emergere della tecnofinanza è stata una delle sue più evidenti degenerazioni. Stanno anche affermandosi delle alternative al capitalismo di concezione smithiana, come la ricetta di Wen Jiabao di “considerare nell’allocazione delle risorse l’importanza della mano visibile del governo tanto quanto quella invisibile del mercato” [1]. 

          L’Italia è il secondo paese manifatturiero d’Europa, con una propensione imprenditoriale fra le più elevate nel mondo. L’attuale crisi sta operando una selezione darwiniana della struttura produttiva e in quella proprietaria. Da un lato il capitalismo diffuso e “molecolare” delle piccole imprese si scontra con i problemi di sottocapitalizzazione e di accesso al credito. Dall’altro, si è conclusa la lunga stagione del capitalismo relazionale che ha influenzato la governance di molte grandi imprese nel dopoguerra. Ad esempio attraverso i patti di sindacato, uno strumento che pur indirizzato a garantire la stabilità del sistema, non promuove efficienza, apertura, contendibilità, ricambio della leadership. Sono tramontati molti protagonisti di quella stagione – imprese e persone fisiche – ma ancora non si è affermato un grande capitalismo di mercato. A sostegno di tale  cambiamento vi è l’aggiornamento dal 1999 dei principi di governance applicabili alle società quotate attraverso il “Codice di Autodisciplina” e che pone l’Italia in una posizione avanzata in Europa.

          La percezione di “un paese di capitalisti senza capitali” evidenziata dall’acquisto di importanti brand italiani da parte di investitori esteri, induce a confrontarsi con la retorica del declino industriale. Occorre, invece, perseguire una strategia che parta dai punti di forza delle imprese per attrezzarle ad affrontare la nuova competizione internazionale. Le risposte non sono derivabili solo o tanto dalla loro dimensione assoluta (un’impresa può essere vincente nel proprio mercato pur avendo una piccola dimensione), quanto di capacità competitiva. Si deve lavorare sull’innovazione, sull’eccellenza della qualità e del servizio, sull’apertura ai mercati esteri (le imprese esportatrici sono quelle che meno risentono della caduta della domanda interna). Il Commissario Europeo alla Ricerca Busquin affermava che “la politica dell’innovazione è di selezione e supporto delle eccellenze, non di coesione”. Si è troppo spesso confuso in Italia innovazione con high-tech: è necessario recuperare il concetto di innovazione organizzativa, di processo, di prodotto nonché la centralità dell’impresa come luogo dove si produce valore e la cultura del fare come risorsa per la democrazia.


          [1] Intervista del premier cinese Wen Jiabao a Fareed Zakaria, 23 settembre 2008.