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Attività

Immigrazione e integrazione: le sfide per la società italiana

    • Roma
    • 8 Novembre 2012

          Gli stranieri presenti in Italia sono passati dall’1% nel 1991 all’odierno 7,5% della popolazione residente, contribuendo al PIL nazionale per oltre il 12%. Molti di loro hanno scelto di stabilirsi in maniera permanente in Italia, vi hanno comprato casa (20% dei migranti) e i lori figli frequentano le scuole italiane. 

          Il passaggio da una Italia terra di emigranti a paese di immigrazione è, dunque, un fatto recente e che presenta importanti differenze rispetto a quanto accade in Francia, Inghilterra, Germania o altri paesi in cui tale fenomeno è presente.

          Innanzitutto, non si tratta di un retaggio di imperi coloniali e, seppur caratterizzato nella sua esplosione dalla globalizzazione, i maggiori fattori di spinta sono stati più demografici che economici. L’Italia si caratterizza per essere l’unico paese in cui, a fronte di un alto tasso di immigrazione, corrisponde un basso o nullo tasso di crescita. Questo perché gli immigrati sono giunti in Italia per colmare quei vuoti di manodopera, di lavoratori domestici o operatori dediti all’assistenza di anziani e bambini, frutto di una popolazione che invecchia e di scelte occupazionali degli italiani.

          Un altro aspetto di differenziazione è quello che vede la struttura sociale italiana – famiglia e religione – e il ruolo degli 8.000 comuni (al posto di megalopoli circondate da anelli urbani) che sono stati in grado di metabolizzare il fenomeno. Non si sono, infatti, registrati in Italia particolari episodi di xenofobia, presenti altrove, anche se alcune posizioni verbali non hanno sicuramente  giovato all’analisi e alle soluzioni dei vari problemi connessi con l’immigrazione.

          L’immigrazione porta indubbiamente vantaggi per il Paese non solo perché gli immigrati contribuiscono al PIL, ma perché assicurano “il PIL demografico”, ovvero la capacità di garantire anni di futuro. Gli italiani nel 2010, tramite le nascite hanno procurato 45 milioni di anni di futuro e ne hanno consumati (attraverso la morte) 59 milioni. Il deficit è stato compensato grazie ai 16 milioni di anni di futuro assicurato dagli immigrati.

          Vi è poi l’aspetto importante delle rimesse che nel 2011 sono state pari a 7,4 miliardi di euro. Un simile flusso di denaro non solo conferma che il legame con il paese d’origine non viene meno anche tra gli immigrati che hanno scelto di vivere il loro futuro in Italia, ma rappresenta un’importante risorsa per quelle aree in via di sviluppo.

          Se l’immigrazione è un fenomeno storicamente giovane e, cessata o fortemente attenuata l’emergenza degli scorsi anni, esistono oggi le condizioni per cominciare ad orientare le azioni delle Istituzioni, dando vita ad un modello italiano che sia in grado di trarre lezioni da quelli degli altri paesi. Un modello che, nel risolvere i nodi dell’integrazione, tenga conto delle specificità e delle mutate condizioni economiche frutto della crisi.

          Innanzitutto, vanno ripensate le politiche dei flussi e della emersione attraverso strategie che abbandonino le logiche delle sanatorie e vadano verso una attività di monitoraggio permanente e costante.

          Se dal punto di vista dei diritti nel mondo del lavoro gli immigrati regolari sono parificati agli italiani e il divario salariale si sta riducendo, restano carenti le procedure di ottenimento della cittadinanza e la capacità di frequentare con profitto la scuola. Sulla concessione della cittadinanza, posto che non è la via a buon mercato per l’integrazione come insegnano i moti nelle banlieues francesi, è vivo il confronto tra ius soli e ius sanguinis. Unanime è il parere che si dovrebbero semplificare le procedure, eliminando le lungaggini burocratiche che aggiungono almeno altri 4 anni di attesa ai 10 già previsti per ottenere la cittadinanza. Si potrebbe poi introdurre uno ius culture per i figli di stranieri nati in Italia con cui collegare la cittadinanza ad almeno un ciclo scolastico completato.

          Se la realtà mondiale porterà sempre più verso forme di “meticciato” non solo genetico ma anche culturale, se l’economia della globalizzazione prevede il movimento non solo dei capitali ma anche delle persone, dotarsi di strumenti capaci di gestire questi fenomeni è una priorità del Paese. Strumenti economici con cui operare investimenti sociali, strumenti legislativi per regolare e gestire, strumenti culturali per spiegare e integrare.

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