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Attività

Quale scuola per la competitività del Paese?

    • Milano
    • 26 Giugno 2017

          Non è affatto vero – come vorrebbe una vulgata vicina ormai al luogo comune – che il sistema scolastico italiano produca solo mediocrità. Tutt’altro. Nel contesto internazionale le caratteristiche della formazione vanno in favore del sistema tradizionale adottato in Italia e ispirato, nei fondamentali, al modello gentiliano. I giovani laureati italiani – 51% contro il 30 % di altri paesi – vengono trattenuti all’estero perché sono più colti, hanno capacità di ragionare a 360 gradi e hanno fama di essere in grado di risolvere problemi complessi.

          Certo è che nell’era della digitalizzazione e della globalizzazione alcuni cambiamenti sono necessari.  Pur riconoscendo le eccellenze che si fanno valere sia in Italia che all’estero e pur avendo grande attenzione per tutte le categorie protette, il sistema educativo non lavora adeguatamente sulla fascia di alunni con rendimento medio. Inoltre non lavora su quella caratteristica  di primo piano tipicamente italiana che è la creatività.  Se l’arte è il “petrolio italiano” allora è necessario attrarre professionalità dall’estero che cerchi creatività. E al tempo stesso organizzare corsi universitari senza aspettare che siamo le università americane ad aprirli.

          Scuola e università – peraltro – non rappresentano più l’ascensore sociale di una volta. E se la scuola non serve alla mobilità sociale, allora non raggiunge uno dei suoi obiettivi primari.  Ecco perché è sempre più necessaria una riflessione seria che individui le criticità – per risolverle – e valorizzi le eccellenze e i punti forti del sistema, come la scuola dell’infanzia e la scuola primaria, due modelli segnalati da sempre con valutazioni molto positive anche dall’estero.  

          Diversa è la situazione della scuola media, stretta tra un innalzamento della scuola dell’obbligo e una perdita progressiva di identità. Esiste un’opinione diffusa, non minoritaria, che punta a ridurre la fascia successiva alla scuola primaria da tredici a dodici anni. Sono in atto in tal senso sperimentazioni come quella del Collegio San Carlo di Milano che sono state portate ad esempio non solo per la durata, ma anche per la qualità degli esperimenti, per l’introduzione di insegnamenti in lingua inglese e l’utilizzo di un efficace sistema di tutoraggio.  

          Una criticità del sistema italiano tuttora esistente è quella delle scuole professionali, che  – molto efficienti e funzionanti in alcune regioni, meno in altre – vengono considerate ancora di nicchia. La scuola  professionale sconta in Italia ancora un pregiudizio  di fondo perché viene percepita come un ripiego e solitamente come approdo di studenti più fragili: esatto contrario del sistema tedesco, quello italiano presenta anche problemi di coordinamento e di prospettive.

          Altra criticità è quella dell’assenza di regolamentazione dei contenuti: le molte piattaforme esistenti non sono affatto garanzia di contenuti certificati. A questo proposito è stata ricordata l’iniziativa della Treccani Scuola che -attraverso nuovi investimenti  e risorse – fornisce un servizio all’avanguardia e molto efficace. Quella che va combattuta nell’attuale sistema scolastico è la crescente obsolescenza dei saperi e l’ormai obsoleta organizzazione fordista e napoleonica. Va introdotto obbligatoriamente un sistema di coding come accade  in Usa e Finlandia e avviata una procedura di fissazione di costi standard nell’istruzione pubblica. Molto si è poi discusso sulla spesa dello Stato per l’educazione. Secondo alcuni il sistema universitario sconta in Italia la pochezza dei finanziamenti, che sono sotto la media OCSE: 1% del PIL a fronte di una media del 2%. Altri,  invece, citano il rapporto sulla spending review dove si legge  che l’Italia è in linea con gli altri Paesi europei.

          Altra criticità, pur con lodevoli eccezioni, è quella dell’alternanza scuola- lavoro: un grande cambiamento di metodo e di contenuti e non solo strutturale che ha però  bisogno di ulteriori miglioramenti. Funziona meglio il rapporto lavoro- università, come dimostrano vari accordi  tra grandi aziende e istituzioni bancarie con le maggiori università del Paese.

          Quella che va difesa innanzi tutto è la cultura della laurea, che non gode oggi di un’ottima reputazione. Anche perché i numeri dei laureati non sono brillanti: 25 % a fronte di una media Ocse del 45%. Le cifre però confermano che un laureato – 42% – ha ancora maggiori possibilità di trovare un lavoro e di trovarlo con migliori emolumenti rispetto ad un diplomato.  L’alta disoccupazione giovanile resta un grave problema da risolvere: secondo molti non è però il sistema educativo ad essere il maggiore  imputato, bensì la carenza di orientamento. C’è chi propone di riformare il sistema introducendo esami in ingresso e non in uscita, in modo da sapere fin dall’inizio se lo studente possa essere effettivamente adatto a certe materie.

          Quello che negli anni non ha funzionato è stata la laurea triennale e l’intera  riforma del cosiddetto “tre + due” non ha dato i risultati sperati. Il mondo industriale aveva molto premuto per averla, ma il mondo universitario la ha concepita in modo sbagliato. Il collegamento con gli stage non è stato articolato bene e in modo sistematico. Le famiglie hanno percepito come una laurea minore ed ecco quindi il fallimento: un problema, certo, di comunicazione, ma non solo. Peraltro, complessivamente, nel sistema educativo funzionano le eccellenze, funziona l’assistenza agli studenti con difficoltà anche gravi. Manca però l’enfasi sul livello intermedio .

          Nell’era digitale resta strategico da un punto di vista formativo il modo in cui lo studente possa riuscire a mettere insieme l’alta specializzazione richiesta dalle nuove tecnologie e quel fondamentale sostrato umanistico e colto di una storia culturale millenaria. La strada è tracciata: è necessario mettere insieme ars interrogandi e ars respondendi e in sostanza  tornare al Rinascimento, alla figura dell’ingegnere rinascimentale. Leonardo e Steve Jobs, Machiavelli e l’intelligenza artificiale della macchina IBM Watson possono contribuire paritariamente alla formazione culturale di un adolescente. Tenendo bene a mente il monito di Tim Cook: “Io non temo i computer che pensano come gli umani, ma quegli umani che pensano come i computer. 

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