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Attività

L’industria al centro: da dove ripartire per essere competitivi?

    • Venezia
    • 9 Maggio 2014

          È un dato ormai assodato che l’industria sia tornata al centro delle strategie di crescita economica dei principali paesi avanzati. Mentre lo è sempre stata in quelli emergenti. L’onda partita dagli USA è approdata, negli ultimi anni, anche in Europa. E la politica industriale, fino a qualche anno fa un cliché fuori moda, è tornata ad essere un argomento cruciale nella definizione delle strategie di politica economica.

          Alla luce di questo nuovo rinascimento industriale, i partecipanti al seminario Aspen si sono chiesti quali siano gli orizzonti dell’industria italiana oggi, quali le principali sfide da vincere dinanzi a una competizione globale sempre più agguerrita e veloce, quali i fattori di forza su cui puntare e quelli di debolezza cui porre rimedio. Reinterpretando il paradigma di Hirschman (exit, voice, loyalty) è emersa più di tutto la loyalty declinata come volontà di contribuire alla rinascita industriale ed economica del paese.

          Utilizzando un approccio fattoriale sono stati individuati diversi elementi abilitanti e disabilitanti sia a livello industriale che istituzionale. L’industria italiana oggi affronta contemporaneamente le sfide della globalizzazione e della digitalizzazione, nel contesto del quadro di riferimento disegnato dalle strategie europee. Messa a dura prova dalla crisi economica più profonda dal secondo dopoguerra, l’industria nostrana ha resistito, nonostante la perdita in termini di posti di lavoro, numero aziende e valore aggiunto degli ultimi anni. La resilienza di un sistema industriale concentrato su settori medium e high-tech si è misurata sulla capacità di internazionalizzare con successo e di puntare su innovazione e creatività per rimanere competitivi a livello globale. Il risultato oggi si traduce nei numeri in surplus della bilancia commerciale non energetica, in una quota di export sui mercati internazionali che ha ceduto al gigante cinese molto meno rispetto alla gran parte dei paesi avanzati (Germania esclusa), nelle classifiche del commercio mondiale che vedono le nostre aziende raggiungere o mantenere primati in diversi settori merceologici e che collocano l’Italia seconda solo alla Germania in Europa. Uno dei principali limiti del sistema industriale italiano rimane, tuttavia, quello dimensionale. Le linee di possibile crescita tracciate da alcuni casi di successo presentati, fanno riferimento a tre possibili paradigmi: la crescita per linee interne, quella per aggregazione lungo dimensioni diverse (da quella finanziaria a quella dell’innovazione), infine quella che passa attraverso l’ingresso in gruppi multinazionali di grandi dimensioni. Quello che conta è in ogni caso l’apertura senza la quale non c’è innovazione e non c’è crescita.

          In termini di fattori produttivi, sono state rilevate difficoltà nell’accesso al credito, dovute a una situazione bancaria e finanziaria frammentata nell’area euro, nonché eccessivi costi nell’approvvigionamento energetico. Al pari delle difficoltà finanziarie, la cui soluzione è rappresentata dal lancio dell’Unione bancaria, anche quelle energetiche richiederebbero l’elaborazione di un progetto di  forte integrazione a livello europeo. Sempre in tema di fattori della produzione e della produttività totale degli stessi, particolare attenzione è stata dedicata al ruolo del capitale umano e, in particolare, al processo di formazione dello stesso attraverso le diverse fasi dell’istruzione primaria, secondaria, terziaria e permanente. In questo ambito l’Italia presenta punti di forza e debolezza al tempo stesso. Da un lato può vantare un sistema formativo che, nonostante alcuni limiti, prepara ottimi laureati, ma al tempo stesso soffre di un pesante mismatch di competenze rispetto alle esigenze del nostro sistema industriale. E non si tratta solo di laureare più ingegneri, ma anche di promuovere quel sistema di formazione tecnico-professionale duale che ha giocato un ruolo così importante per la manifattura tedesca.

          I principali fattori disabilitanti sono, invece, stati riscontrati per lo più a livello istituzionale con un sistema paese che sembra intento più a porre vincoli che a promuovere la competitività delle sue imprese. Intuizione confermata dalle statistiche internazionali sulla facilità di fare impresa che vedono sempre l’Italia tra i fanalini di coda dell’Europa. Il sistema politico-istituzionale italiano più che seguire una visione di politica economica e industriale strategica di lungo periodo, sembra piuttosto puntare alla paralisi reciproca, anche a causa della frammentazione delle competenze aggravata dalla riforma del titolo V della Costituzione. Due suggerimenti sono emersi con insistenza nel corso del dibattito: semplificare le regole e dare stabilità alle norme. Sosteneva l’economista Pietro Verri: “Ch’egli [il legislatore] abbia per norma leggi chiare, precise inviolabili, da osservarsi imparzialmente verso di qualunque contribuente”. E il filosofo Beccaria: “Facciasi una legge conforme alla verità e cesserà la disobbedienza del popolo”. Solo con buone leggi e buone istituzioni, le energie creative e innovative di cui il paese dispone riusciranno a dispiegare appieno il loro potenziale e il sistema economico tornerà a crescere.