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Attività

Il settore pubblico: un peso o un fattore propulsivo per l’Italia?

    • Venezia
    • 20 Maggio 2016

          Tornare allo Stato: questa è la tendenza diffusa nei momenti di crisi economica. E l’oggi non fa eccezione. Ma è diverso il contesto: una rivoluzione copernicana investe la società, l’economia, la politica e la cultura. C’è necessità di un recupero di competitività, di aumento di investimenti e diminuzione del debito pubblico, laddove anche il risparmio privato, a causa della crisi non gode di ottima salute. Vanno rilanciati gli investimenti e si deve provvedere ad un razionale ricollocamento dei fattori produttivi.

          In questa rivoluzione è difficile trovare termini di paragone, eppure vanno cambiati i paradigmi.  Vanno ridefiniti gli spazi dell’azione pubblica e della stessa concorrenza per avere mercati più competitivi e un’economia che cresce. Soprattutto più che un problema lo Stato deve diventare la soluzione. Come, dunque, declinare in un nuovo modo il paradigma “pubblico”? In realtà secondo molti il pubblico – in quanto Stato – è divenuto una sorta di “caro estinto”. Alternativamente sarebbe forse utile e innovativo intendere sia “pubblico” che Stato partendo da un moderno concetto di città  metropolitana. Sono le città oggi – si veda Los Angeles, New York, Tokyo o la stessa Milano – che identificano i problemi dei prossimi venti anni, provano a dare una cornice e una visione per una loro adeguata soluzione.

          Di sicuro il settore pubblico è frastornato, ma non può rimanere inerte: è, infatti, necessario che lo Stato rimuova handicap competitivi che pesano sul sistema industriale, persegua una politica di costruzione di infrastrutture sia materiali che digitali , abbandonando contestualmente qualunque politica concepita solo come erogazione di aiuti a pioggia. Laddove lo Stato funziona e ha un ruolo i risultati ci sono: è stato fatto l’esempio della Spagna che ha avuto un incremento del PIL del 2% sfruttando adeguatamente i fondi europei. Lo stesso non può certo dirsi dell’Italia.

          E proprio di Europa si è discusso molto. Sia gli europeisti tiepidi che quelli più appassionati hanno convenuto come oggi l’attuale assetto europeo venga percepito per lo più come un impedimento. In particolare si considera immotivata e sbagliata la severità con la quale vengono considerati aiuti di stato anche gli interventi a garanzia o quelli fatti per equalizzare le condizioni economiche di un settore.

          L’Italia, dal canto suo, è ancora percorsa da un persistente divario tra Nord e Sud, come dimostrano non solo i dati del PIL, ma anche quelli relativi a competitività e fatturato: si confrontano due Italie, molto diverse e divergenti. E il Sud non riesce neanche a sfruttare i vantaggi fiscali accordati dalla legge. Nord-Sud , ricchezza e miseria: un divario per superare il quale è sempre più strategica l’azione di una Banca del Mezzogiorno.

          Se il ruolo dello Stato resta ancora determinante è indubbia la necessità di sostanziali miglioramenti.  Se è vero che le spese sono state ridotte e il personale  della PA non raggiunge più numeri esorbitanti, ma si è avvicinato alla media europea, vanno però ancora per esempio applicati i costi standard: c’è accordo sulla loro definizione,  non c’è ancora alcuna messa in atto della loro generale applicazione. Molto c’è da lavorare anche sulla qualità e sull’età del personale, salvo alcune evidenti eccellenze. Dopo anni di blocco del turn over emerge un problema ineludibile di riorganizzazione e di nuova formazione delle competenze. La preparazione al nuovo mondo impone svecchiamento, innovazione, flessibilità e apertura.

          Non si può restare analogici in uno scenario globale ormai digitale: va creato, dunque, un nuovo ecosistema dove economia, finanza, mondo della formazione e settore pubblico siano in grado di coordinarsi, parlare la medesima lingua e aver bene presente le adeguate aspettative e i necessari equilibri. 

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