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Attività

Abbiamo avuto, abbiamo ancora, avremo un sistema industriale italiano?

    • Milano
    • 4 Novembre 2013

          L’Italia ha ancora un sistema industriale valido e può continuare a mantenerlo in futuro. A patto, però, di mettere in atto una profonda ristrutturazione mirata al rilancio di quella grande fascia di imprese che al momento si trova a un bivio fra le opportunità offerte dalla crescita globale e il rischio di marginalizzazione.

          Il sistema manifatturiero nazionale ha resistito meglio di molti altri omologhi europei alla de-industrializzazione in atto, confermando il proprio secondo posto continentale dietro alla Germania per creazione di valore aggiunto. Per valorizzare e generalizzare i punti di forza esistenti serve tuttavia una vera ristrutturazione, non solo finanziaria, ma anche industriale. Gli investimenti, infatti, devono essere di sistema e creare quelle condizioni che in altri paesi – si prenda il caso più virtuoso in materia, quello tedesco – hanno portato alla creazione di campioni nazionali e di istituzioni che sostengono lo sviluppo industriale di lungo periodo, come KFW, l’omologa in Germania della Cassa Depositi e Prestiti. In mancanza di risorse nazionali, inoltre, la ripartenza dell’industria italiana deve accompagnarsi a uno sforzo per attrarre maggior flussi di capitali dell’estero.

          I punti da cui partire non mancano. La relativa tenuta del sistema italiano di fronte alla crisi e la capacità di trovare un modo di convivere e cooperare con l’industria tedesca possono rappresentare un modello per la creazione di un’Europa sempre più integrata a livello economico, dove la competizione con i paesi emergenti non ammette inefficienze e duplicazioni inutili. Del resto, come la Germania, anche l’Italia è riuscita a creare un sistema non più caratterizzato solo da produzioni di base, ma forte di diverse specializzazioni: il Paese mantiene, infatti, buoni posizionamenti settoriali nei ranking di competitività mondiale e ha messo in atto negli ultimi quindici anni, un cambiamento strutturale che ha portato alla nascita di un “nuovo” made in Italy in cui settori tecnologici e innovativi della meccanica si affiancano ai prodotti tradizionali della moda, dell’arredo e dell’alimentare. Anche grazie a questa trasformazione, il sistema italiano si classifica globalmente secondo, dopo la Cina, per il numero di prodotti (escluso il food) in cui la bilancia commerciale è migliore rispetto a quella tedesca.

          Eppure la forte crescita dell’export e un notevole surplus della bilancia manifatturiera (che ha raggiunto nel 2012 il proprio record a 94 miliardi di euro) sono sintomo di un fenomeno alquanto problematico per l’industria italiana: la forte contrazione del mercato interno, vera responsabile di una crisi che ha portato alla chiusura di moltissime aziende e alla perdita di 600 mila posti di lavoro su un totale di 4 milioni di addetti. In un modello che è sempre di più local for local (dove il cliente chiede un presidio industriale di prossimità al fornitore) e in cui le imprese sono inserite in catene di valore, il sostegno del mercato nazionale non può mancare a un sistema manifatturiero che vuole garantirsi basi solide per il futuro.

          E, anche se per le imprese globalizzate del made in Italy il mercato domestico è sempre più di dimensione europea, rimane da chiedersi se l’Italia possa continuare ad essere una base produttiva interessante per servire i clienti del Vecchio Continente. I problemi strutturali e infrastrutturali del Paese, del resto, pesano ancora molto sulla competitività dell’economia nel suo complesso, così come i limiti “culturali” che caratterizzano la piccola e media industria: l’azienda, infatti, è ancora un’impresa per la vita e il controllo familiare ripropone le criticità di un’adeguata gestione manageriale e della crescita dimensionale.

          L’Italia, non bisogna dimenticarlo, è un Paese a industrializzazione recente e i successi raggiunti nello sviluppo di un tessuto manifatturiero a partire dal secondo dopoguerra non sono garanzia della sua prosperità futura. Quello del boom industriale era un mondo fatto da tante nuove PMI, dalle grandi individualità dei capitani d’industria, ma anche da meno regole. Ora l’Italia è chiamata a ritrovare quello slancio. Come una grande e complessa azienda intrappolata in un modello di business che non funziona più, deve innovarsi. E questo lo può fare rinnovando profondamente la propria manifattura, anche attraverso politiche che migliorino l’interazione fra scienza, tecnologia e imprese, fornendo all’industria quel capitale umano qualificato così necessario per competere sui mercati globali.