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Attività

Politiche economiche, sistema creditizio, strategie d’impresa: come usciremo dalla crisi?

    • Venezia
    • 22 Maggio 2009

          Economia, società, istituzioni: la crisi che stiamo attraversando non risparmia nessuno. Investe la finanza, si riversa sull’economia reale e sul lavoro, chiama in causa il ruolo dello Stato e delle organizzazioni internazionali. La crisi mette in discussione il nostro modello di sviluppo, la capacità della politica di regolare i processi economici, l’attendibilità di chi aveva gli elementi sufficienti per prevedere il più grave disastro finanziario dalla fine della seconda guerra mondiale e non l’ha fatto. Tuttavia, la crisi, che pure rappresenta una delle cesure storiche dell’ultimo secolo, è un fatto transeunte. Un fenomeno, cioè, che ha avuto un inizio e che avrà una fine. Dunque, ne usciremo. Il punto è capire come. Quali scenari ci attendono? Che ruolo possono ancora giocare le politiche dei governi e delle istituzioni mondiali per indirizzare il passaggio da un sistema economico all’altro? Come fare in modo che la colossale iniezione di liquidità immessa sul mercato per tamponare l’emergenza non finisca nuovamente appannaggio della finanza, ma si trasferisca, attraverso il carburante del credito, al mondo delle imprese e a quello del lavoro?

          Al di là delle opinioni sulle responsabilità dei singoli Stati o sui comportamenti degli operatori del mercato, su una previsione il giudizio sembra essere prevalente: niente, dopo la crisi, sarà più come prima. Dal “turbocapitalismo” degli anni scorsi, drogato dall’idolatria del breve termine e dall’ossessione per il profitto immediato, il mondo uscirà con un paradigma di crescita diverso da quello del passato. Quale che sia la trasposizione visiva di questo nuovo paradigma – a “tinozza vittoriana” o “a L”, per citare due dei modelli descritti nel corso del seminario – la rivoluzione si tradurrà in una trasformazione dei rapporti di forza a livello globale. In verità, il cambiamento è già in atto: la rapida affermazione del G20, al posto di un G8 ormai svuotato di ogni velleità di rappresentanza, costituisce un’evidenza. Meno evidente è, invece, la deriva verso cui questa evoluzione porterà. Due, al momento, paiono le alternative più probabili: da un lato, la soluzione improntata alla stabilità e costituita dalla formalizzazione di un G13-14, del quale facciano parte anche i Paesi finora classificati come emergenti; dall’altro, la polarizzazione estrema, con la creazione di un G2 formato da Stati Uniti e Cina, veri detentori del potere economico globale.

          Per l’Europa il secondo scenario sarebbe una sventura. Sventura tanto più grave se si tiene conto del fatto che l’Unione europea è oggi uno dei più grandi mercati integrati del mondo. Esso, tuttavia, non è sostenuto da un’impalcatura istituzionale all’altezza. Lo stallo del percorso d’integrazione comunitaria, arenatosi con il fallimento del processo costituente e simboleggiato da una Commissione debole e in scadenza di mandato, ha finito con l’inibire qualsiasi serio tentativo di coordinamento della politica economica degli Stati membri. E se le proposte avanzate per rivitalizzare la dimensione sovranazionale – come la revisione dei meccanismi di costruzione del bilancio dell’Ue o la richiesta di una graduale apertura al coordinamento delle politiche fiscali – sembrano andare nella giusta direzione, non v’è dubbio che, in assenza di un’immediata spinta al comunitarismo, per l’Europa unita il rischio sia quello del declassamento, tanto più in considerazione degli scenari di crescita di lungo periodo o di tendenze inesorabili come l’invecchiamento progressivo della popolazione del vecchio continente.

          Rispetto a questa assenza di una conduzione unitaria della risposta europea alla crisi, colpisce, sul versante della politica monetaria, l’attivismo della BCE che, pur senza abdicare alla sua vocazione alla stabilità, ha sia cercato di mantenere bassi i tassi di interesse, sia proceduto a massicce immissioni di liquidità, affermandosi come sistema a proiezione globale, al pari solo della FED, e come istituzione candidata a ricoprire il ruolo di riferimento europeo in materia di vigilanza e supervisione dei mercati finanziari. Resta da capire quanto questo nuovo approccio alla gestione della politica monetaria – mai sperimentato da Francoforte e per alcuni estraneo alla sua constituency statutaria – sia sostenibile nel lungo periodo, possa concretizzarsi in un’azione efficace sull’uso dei cambi, specie in relazione al rapporto tra euro, dollaro e valute asiatiche, e al contempo comportare un trasferimento di liquidità effettivo non alla finanza, ma all’economia reale.

          Con la crisi il fattore tempo diventa fondamentale. Lo è, però, in modo diverso per la politica, che ha la responsabilità di muoversi in una prospettiva di medio-lungo periodo, e per le imprese che invece, fisiologicamente quasi, devono guardare oggi al breve o brevissimo termine. Ma non è tutto: la variabile tempo incide anche sull’andamento della crisi da settore a settore, e tra diverse aree di policy. In termini più semplici, le sue ricadute non si verificano in contemporanea. Se, per esempio, il semaforo rosso pare ormai virare verso il giallo per ciò che riguarda la finanza, ancora non è del tutto chiaro quando, e con quale progressione, l’emergenza vera colpirà il sistema produttivo e il mondo del lavoro.

          Questa incertezza riguarda naturalmente anche l’Italia, che pure sta dimostrando di reggere alla violenza della crisi meglio di altri Paesi avanzati. Gli ingredienti? In primo luogo, un sistema del credito ancora fortemente radicato sui territori che, a dispetto dell’esaltazione per le fusioni e le aggregazioni in voga negli ultimi anni, è stato in grado di intercettare, meglio dei grandi gruppi bancari, le reali istanze del sistema produttivo italiano, in particolare delle PMI che in larga parte lo compongono. A pesare è soprattutto la rilevanza del fattore conoscenza: le piccole banche tendono a interfacciarsi direttamente con gli imprenditori, ne conoscono le potenzialità e i limiti e per questo valutano la concessione del credito in base a criteri di affidabilità generale e non solo di merito finanziario. Dalla conoscenza nascono, in definitiva, la fiducia e la condivisione del rischio. A ben vedere, si tratta, sulla carta, di un ritorno alla funzione dell’intermediazione bancaria intesa sì come impresa, ma in un’ottica di responsabilità forte nei confronti della collettività.

          A questa funzione si appellano oggi le imprese italiane che in primo luogo lamentano una mancanza sempre più pressante di liquidità, cioè di denaro circolante.

          Sullo sfondo resta, naturalmente, il complesso delle politiche pubbliche da attivare per uscire dalla crisi. L’Italia ha dalla sua, com’è noto, una straordinaria propensione al risparmio privato, che l’ha tenuta relativamente al riparo dal cataclisma che, ad esempio, ha investito i consumatori americani. Tuttavia, questo punto di forza stride, per contrasto, con l’elemento di debolezza più preoccupante del nostro sistema. Vale a dire, con lo stato della finanza.

          L’Italia ha ritardi cronici da superare (deficit di produttività, debolezza del capitale sociale, sistema di welfare sbilanciato, inefficienze e farraginosità della P.A.), ma anche grandi potenzialità. La sfida sarà soprattutto quella di utilizzare questa fase per coinvolgere l’intero Paese – le istituzioni a tutti i livelli, il mondo dell’impresa, dell’intermediazione finanziaria, del lavoro, del Terzo Settore, in nome del principio della sussidiarietà – in un progetto di respiro nazionale che abbia l’ambizione di correggere i fattori di debolezza e valorizzare quelli di forza, per superare la crisi e proiettarsi oltre l’angusto orizzonte del breve termine. 

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