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Stampa estera – Il commento

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    • 30 Ottobre 2014
    • Ottobre 2014
    • 30 Ottobre 2014

    L’estetica fa bene all’economia italiana
    Intervista ad Antonio Calabrò

    Cultura, arte e turismo: questi sono i temi che più rappresentano l’Italia sulle pagine della stampa estera. Al di là degli argomenti di più stretta attualità, infatti, le segnalazioni culturali continuano ad essere presenti in gran numero sulle pagine dei quotidiani internazionali. Ma la grande tradizione culturale italiana, ben presente sui media esteri, può essere un vantaggio anche per l’economia del Paese? L’Osservatorio Stampa Estera di Aspen Institute Italia ne ha parlato con Antonio Calabrò, Consigliere delegato della Fondazione Pirelli.

    Sulla stampa estera spicca l’immagine dell’Italia come Paese di grande tradizione culturale. Un asset per le imprese italiane?
    In Italia esiste un legame molto stretto fra impresa e cultura, una cultura che è “politecnica” e si origina in quel connubio fra scienza e umanesimo, incarnato da Piero della Francesca, da Leonardo, da Galileo, ma anche dalla rivista Il Politecnico di Carlo Catteneo, a metà Ottocento e dall’omonimo settimanale di Elio Vittorini nel secondo dopoguerra; senza dimenticare, poi, le grandi riviste dell’industria, come la Civiltà delle Macchine e la rivista Pirelli, entrambe forti della creatività di un ingegnere-poeta come Leonardo Sinisgalli.

    Tuttavia se l’immagine della cultura italiana si limita al patrimonio storico, si registra un fenomeno reale, ma si perde una grande occasione di sintesi culturali originali. L’immagine da proporre, invece, deve approfondire il senso di un Paese ad alta cultura, dove cultura è sì arte, letteratura, opera lirica, grande architettura, ma anche la nostra sapienza manifatturiera: alla base delle nostre imprese c’è infatti un insieme di saperi tecnico-produttivi e artigiani, i veri artefici dei prodotti di qualità che l’Italia esporta nel mondo. Una cultura del progetto che si trasforma in cultura del prodotto. Design e qualità. Da questo punto di vista, si può dire che “impresa è cultura”.

    Il sistema produttivo italiano è consapevole della propria tradizione culturale?
    Non sempre, e questo è un problema. Bisogna investire perché le imprese diventino più consapevoli dell’elevato livello di cultura che ne permea l’attività, ma bisogna anche puntare sulla formazione perché il grandissimo patrimonio diffuso della cultura manifatturiera sia sempre più visibile e fruibile. Le imprese stesse, raccontando la propria storia, possono contribuire a produrre cultura. E le associazioni imprenditoriali stanno dimostrando di poter lavorare bene sulla storia e sulla cultura di impresa. Il passo ulteriore da compiere – e da incentivare con il ricorso alla leva fiscale – è sensibilizzare le piccole e medie imprese, convincendole che il racconto e la condivisione di storie di successo sono un investimento sul futuro. Sul loro. E su quello di tutto il Paese.

    Se si guarda solo al patrimonio storico e culturale restano in ombra altre eccellenze del Paese?
    Il pericolo c’è. E dunque non possiamo correre il rischio di concepire il patrimonio italiano come immobile, di “museificare” il Paese, o di ridurci a una sorta di Disneyland dell’arte. È necessario agire su più dimensioni: da un lato salvaguardare, restaurare e valorizzare il patrimonio esistente, dall’altra realizzare investimenti per dare slancio a tutta l’arte della contemporaneità. Dobbiamo uscire dalla strettoia che lega l’innovazione solo al settore dell’Information Technology. E capire bene che innovazione è prodotto e processo produttivo, ma anche nuovi linguaggi, relazioni industriali, rapporti con il territorio in continuo cambiamento. Innovazione come cultura delle trasformazioni, delle metamorfosi. Innovazione, per esempio, è pure riprendere i vecchi colori delle manifatture di Venezia e farne elemento per connotare arredi diffusi, di successo nel mondo. In questo campo noi italiani siamo bravissimi: basta guardare ai borghi antichi diventati centri del made in Italy o alle fabbriche disegnate da grandi architetti, come lo stabilimento Pirelli di settimo Torinese progettato da Renzo Piano, fabbrica bella, ecologica, efficientissima. Produrre in ambienti gradevoli migliora il senso d’appartenenza, l’impegno e quindi la produttività. Mettiamola così: l’estetica italiana applicata all’industria è un grande asset di competitività per il Paese. 

    Servono, dunque, le imprese per promuovere all’estero l’immagine italiana?
    Le imprese italiane di eccellenza delle 4A – non solo l’abbigliamento, l’arredamento e l’agroalimentare, ma anche l’automazione meccanica, che forse è il settore più importante – sono fantastiche ambasciatrici della qualità del Paese. Certo il loro lavoro si scontra con l’eterna contraddizione della burocrazia, il degrado del territorio, la corruzione, le mafie, la scarsa cultura del mercato e del merito e gli altri problemi che compromettono l’immagine dell’Italia. Eppure c’è molto potenziale su mercati come Cina, Brasile o Stati Uniti, tutti Paesi in cui l’idea di qualità italiana va crescendo, non solo con l’export ma anche con gli investimenti diretti delle nostre industrie migliori. Le imprese stanno facendo moltissimo e possono fare di più. Ma le istituzioni devono dare il proprio contributo per promuovere un sforzo di sistema. Le nostre aziende, del resto, hanno un ottimo punto di partenza, ben racchiuso nella definizione di Carlo Cipolla, e cioè in quella capacità italiana di “produrre cose belle che piacciono al mondo”.