Ripensare l’assetto dell’industria del design significa oggi fare i conti con uno scenario attuale complesso ed interessante allo stesso tempo. La questione teorica di base potrebbe essere sintetizzata attraverso due atteggiamenti opposti: il design italiano deve porsi nelle condizioni di assecondare le richieste di mercato, sposando così un atteggiamento che si potrebbero definire di breve e medio termine? Oppure deve proporsi come punto di riferimento stilistico e produttivo nei confronti degli scenari internazionali, rivestendo così una sorta di ruolo di avanguardia all’interno del gusto globale, come avvenne nel Dopoguerra? Questo secondo approccio sottintende la persistenza, all’interno del sistema-paese di una cultura allo stesso tempo creativa e produttiva, espressione di un’eccellenza mondiale. Tale persistenza va comunque nutrita continuamente di idee e risorse, pena la sua estinzione. Viceversa, l’approccio che tenderebbe ad assecondare le richieste del mercato necessita di alte capacità di ascolto e di analisi dei gusti internazionali, le quali non possono non avvalersi di avanzatissime capacità di lettura dei trends, cosa non sempre immediata nel modo “italiano” di affrontare le sfide globali.
Altra importante questione –più incentrata sull’assetto interno del sistema produttivo che fa capo al design – è rappresentata dalla scelta, ormai ineludibile, tra favorire l’aggregazione oppure di mantenersi all’interno di un assetto caratterizzato da un sistema produttivo frazionato.
È possibile che quest’ultimo approccio riesca a salvaguardare in maniera più efficace le specificità italiane, e probabilmente, anche se ciò può sembrare paradossale, riesca a soddisfare meglio le esigenze del mercato globale, il quale non va inteso come un unicum omogeneo, bensì come una sorta di insieme di nicchie, ognuna con le proprie specifiche richieste ed esigenze da soddisfare.
Appare evidente come il sorgere e l’imporsi dei nuovi mercati crei a sua volta la necessità di una progettazione e realizzazione di nuovi prodotti. In questo senso il design italiano può ribadire il proprio ruolo e le proprie specificità, fortunatamente ancora riconosciute a livello internazionale. In ciò appare particolarmente interessante, ed anche incoraggiante, constatare come la modalità ideativa e costruttiva tipica del design, strutturata come processo costante di miglioramento originato da un primario “germe problematico”, trovi particolare rispondenza nei paradigmi produttivi caratteristici dell’industria ad alta tecnologia e, più in generale, in tutti i più avanzati campi scientifici, dalla biomedicina all’high-tech.
Sarebbe, tuttavia, un errore ritenere che il design italiano possa continuare nello stesso assetto che lo ha reso eccellenza mondiale dal Dopoguerra in poi. La “qualità” non si improvvisa e non si eredita: una delle costanti dei maestri del design italiano è sempre stata la capacità di mettersi in discussione, anche perché è la cultura creativa stessa a richiedere un approccio operativo di questo tipo.
Oggi più che mai, inoltre, occorre ripensare i mezzi attraverso i quali ribadire un’eccellenza italiana nel momento in cui gli schemi di comunicazione e di strutturazione dell’immaginario stanno attraversando un cambiamento radicale. In sintesi si può osservare come si sia passati da uno scenario all’interno del quale si poteva parlare di “design applicato all’industria”, ad uno all’interno del quale si può parlare di “industria applicata al design”. Appare evidente come tale cambiamento necessiti un ripensamento generale non tanto dei fattori ideativi, quanto delle modalità di applicazione – dal marketing alla distribuzione alle forme di produzione – degli stessi all’interno dei nuovi scenari internazionali. Qui si gioca il mantenimento, per l’Italia, di un ruolo di eccellenza che rimane, insieme a pochi altri, tuttora riconosciuto, sia nella sua specificità che come valore aggiunto in grado di trainare tutto l’immaginario connesso al sistema-paese.