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Attività

Mercato del lavoro, competitività e capitale umano

    • Roma
    • 30 Maggio 2012

          Cooperazione e conflitto, condivisione di una missione e scontro a prescindere: da decenni il rapporto tra lavoro e capitale in Italia sembra scontare periodicamente l’oscillazione tra queste antinomie. Da un lato, una concezione dell’impresa vissuta come comunità di uomini e donne tesa al perseguimento di obiettivi comuni. Dall’altro, un approccio più classista, fondato su una contrapposizione degli interessi tra tutti gli attori del mercato del lavoro. Nel mezzo lo Stato e la sua funzione di indirizzo e regolazione dei processi economici e sociali. Sullo sfondo, infine, una struttura produttiva classificabile sinteticamente come “duale”: la grande industria e la piccola e media impresa, entrambe certamente diversificate al proprio interno, ma con criticità, modelli di relazioni industriali, potenzialità in larga misura inquadrabili entro questo schema bipartito.

          È all’interno di tale cornice – definitasi a partire dalla (tardiva) industrializzazione italiana e poi consolidatasi prevalentemente nel secondo dopoguerra – che può collocarsi il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro e sui suoi effetti in termini di ripresa della competitività nazionale e valorizzazione del capitale umano. Posto questo come inquadramento storico-culturale, tuttavia, non v’è dubbio che a incidere sul confronto in corso siano, oggi più che mai, alcune variabili relativamente inedite, indipendenti e di proiezione generale: dalla globalizzazione ai progressi tecnologici, dalla rivoluzione demografica alla grande crisi mondiale. Quest’ultima, in particolare, pare aver ormai inesorabilmente trasformato i connotati del capitalismo di stampo occidentale, specie per ciò che concerne la relazione tra crescita e lavoro. Prova ne sia l’esperienza attuale dell’economia statunitense che, dopo lo shock dei primi anni della crisi, ha ripreso gradualmente a crescere, senza però che all’aumento del PIL sia corrisposto un analogo incremento dei livelli occupazionali, per lo meno non nelle dimensioni attese.

          Per l’Europa nel suo complesso, ancora nel pieno della tormenta che si è abbattuta sull’economia reale e sul lavoro e alle prese con il rebus della crescita, questa trasformazione di scenario implica una correzione del paradigma di sviluppo fin qui applicato. Tale cambiamento va fatto non solo per ciò che attiene alla sostenibilità del welfare state, ma anche per quanto riguarda i modelli di organizzazione dell’impresa, la capacità di “stare” sui mercati globali, di innovare prodotti e processi, di formare e qualificare il proprio capitale umano, di ripensare il ruolo dei corpi intermedi, la funzione dei territori, le dinamiche delle relazioni industriali, nonché risolvere la confusione concettuale tra “precarietà” e “flessibilità”. In termini più semplici, dinanzi al cambiamento e all’accelerazione con cui esso si compie, ipotizzare che, una volta superata la recessione, per il lavoro tutto sarà come prima della crisi potrebbe rivelarsi assai pericoloso, oltreché miope.

          Tale eventuale miopia sarebbe, a maggior ragione, dannosa per un Paese come l’Italia, più esposto dei propri competitor al rischio-declino, afflitto da un’ormai decennale asfissia sulla crescita, soggetto a fenomeni diffusi e pervasivi di illegalità e sommerso, poco o per nulla mobile socialmente e con un’annosa difficoltà di attrazione degli investimenti esteri. Inquadrata da questa prospettiva, la discussione sulla riforma del mercato del lavoro riflette, e amplifica, tanto il dibattito sui temi dell’occupazione e dello sviluppo in atto nel mondo quanto le criticità che inficiano, da sempre, le performance dell’economia nazionale.

          Così, al di là delle pregiudiziali sull’art. 18 che pure hanno dominato il confronto pubblico, e quale che sia il giudizio sul dettaglio tecnico del disegno di legge in via di approvazione in Parlamento – un “passo avanti”, un “compromesso”, un “cedimento alla cultura del sospetto nei confronti del capitale” – su un’evidenza pare esserci opinione unanime: di fronte alle straordinarie sfide della contemporaneità il mercato del lavoro italiano, per tornare a funzionare, deve uscire dall’illusione che un intervento di revisione normativa basti, da solo, a risolvere tutti i problemi. Serve, al contrario, la consapevolezza fondamentale e ineludibile che lo Stato, e il sistema nel suo complesso, devono trasformare la propria condotta. Naturalmente in meglio.