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Attività

L’università in Italia: riforme e strumenti per la competitività

    • Cernobbio
    • 19 Luglio 2009

          La riforma dell’università italiana è da mesi al centro del dibattito pubblico nazionale, contestualmente all’evoluzione del progetto di revisione governativa in materia. Al di là degli aspetti attinenti alla governance degli atenei e alla solidità dell’architettura macrofinanziaria del sistema, sulle modalità per rendere più efficace e meritocratico il modello italiano di università la discussione investe prevalentemente i meccanismi di regolazione dell’autonomia dei singoli atenei e i rapporti tra questi ultimi e il contesto in cui operano. Esiste, in altri termini, una relazione diretta tra la governance interna delle università e le ricadute sulla competitività complessiva del Paese. In una società basata sulla conoscenza questa relazione assume un rilievo sempre più centrale, a maggior ragione in una fase di crisi economica come quella attuale, per uscire dalla quale a contare saranno anzitutto la capacità di fare innovazione, l’efficacia nello stimolare sinergie tra il sistema della ricerca e il mondo delle imprese e l’abilità nel sostenere l’internazionalizzazione del capitale umano, soprattutto in entrata, tramite un’azione adeguata di attrazione di talenti e di professionalità dal resto del mondo.

          Quale che siano i percorsi possibili verso una gestione degli atenei fondata davvero sulla responsabilità e sul merito, lo scoglio più ostico resta l’estrema frammentazione del sistema italiano, per il quale l’autonomia si è tradotta principalmente in una pletora di sedi distaccate e in una moltiplicazione esponenziale dei corsi di laura e di specializzazione. Questa parcellizzazione complica l’individuazione di soluzioni selettive per rendere più competitiva la nostra università, specie per ciò riguarda la messa a punto di strumenti orientati a valutare sistematicamente i risultati raggiunti e la definizione di incentivi volti a favorire la progressione di carriera dei più meritevoli. Eppure, proprio la “selettività” sembra essere la chiave di volta per uscire dallo stallo di un sistema che non funziona più come dovrebbe. Selettività delle risposte per la didattica e per la ricerca, nella consapevolezza delle distinte finalità (anche sociali) che caratterizzano le due branche costitutive dell’università. Selettività, nel quadro dell’offerta formativa, tra aree scientifico-disciplinari e tra dipartimenti, con lo scopo di veicolare l’attività di ricerca verso settori ritenuti d’interesse strategico in un’ottica di competitività economica. Selettività, infine, all’interno del personale, con l’elaborazione di percorsi mirati in funzione delle attitudini dimostrate, dall’inizio alla fine, del processo di crescita professionale dentro l’università.

          Posta in questi termini, la questione finisce chiaramente con lo sconfinare sul terreno sensibile del rapporto tra la funzione di promozione del diritto allo studio che gli atenei devono svolgere e la necessaria focalizzazione della missione delle singole agenzie formative, dalla scuola primaria al dottorato. A fare da sfondo c’è non solo l’autonomia garantita normativamente alle università, ma anche l’aspirazione dello spazio d’intervento pubblico di indirizzare queste scelte verso obiettivi di crescita e innovazione utili al Paese. Come questa aspirazione possa declinarsi resta motivo di confronto. L’allocazione delle risorse – che pure è, sulla carta, la leva più diretta nelle mani della politica economica – può rivelarsi uno strumento di selezione risolutivo, a patto che l’azione sia mirata e che non si traduca nella concessione di finanziamenti a pioggia, utile solo a perpetuare un’ulteriore dispersione di risorse umane e materiali.

          Di certo c’è che il tema delle risorse, e della loro distribuzione, resta dirimente. Sia per il contesto di finanza pubblica, che restringe notevolmente i margini d’azione della leva finanziaria. Sia per lo stato di salute del sistema universitario italiano, per la cui sostenibilità le previsioni di medio-lungo periodo impongono una razionalizzazione della spesa, oggi appiattita quasi integralmente sui costi del personale e sulla gestione ordinaria degli atenei. Sia, infine, come benzina per il motore della mobilità sociale, attraverso l’erogazione di prestito d’onore, borse di studio e di ricerca e altre forme similari di sostegno ai più bravi.

          Ancor più dirimente il tema del finanziamento – con il fondamentale corollario del rapporto tra investimento pubblico e ruolo dei privati – lo è per quanto concerne la relazione tra università e impresa. In un Paese a vocazione manifatturiera, la cui struttura produttiva è imperniata su milioni di PMI, il supporto all’innovazione diffusa (di prodotto e di processo) non può che passare attraverso il trasferimento delle competenze e tramite una maggiore integrazione tra ricerca pura e ricerca applicata. L’università italiana è ancora competitiva nella ricerca pura, come testimoniano le graduatorie internazionali delle pubblicazioni e delle citazioni scientifiche. Lo è molto di meno nel passaggio alla ricerca applicata. Il numero dei brevetti ci vede assai distanziati dai grandi Paesi europei nostri competitor. Lo stesso consistente aumento, negli ultimi anni, dei brevetti italiani si deve alle performance di sole 5 università all’avanguardia tra le oltre 70 in cui è articolato il sistema. Tutto ciò conferma non solo la necessità di una razionalizzazione dei compiti delle università, ma anche l’opportunità, fermo restando il principio dell’autonomia, di una più efficace programmazione della missione statutaria degli atenei, su base disciplinare e territoriale.

          Proprio “programmazione” sembra essere, in conclusione, la seconda parola chiave per un’azione di riforma efficace dell’università. Vale per la governance interna degli atenei, vale per il rapporto con l’impresa. Le esperienze virtuose sperimentate recentemente in alcune realtà – con la creazione di incubatori d’impresa, spin-off ben avviati, laboratori di ricerca integrati pubblico-privato, incremento rilevante dell’attrattività di ricercatori e professori stranieri – confermano che è possibile raggiungere risultati ambiziosi scommettendo sulla selettività e sul merito in nome dell’efficienza del sistema e, più significativamente, in nome dell’interesse generale del Paese.

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