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Attività

Le sfide per una società globalizzata: valorizzare giovani, donne, famiglie

    • Firenze
    • 18 Novembre 2011

          Gli storici le definiscono efficacemente “cesure”. Indicano quelle svolte epocali – accadimenti singoli o fenomeni protratti nel tempo – in grado di imprimere una trasformazione irreversibile nei destini dell’umanità. Tale definizione, lungi dall’essere iperbolica, bene si presta a descrivere lo scenario mondiale venutosi a definire negli ultimi vent’anni. Prima il combinato disposto della globalizzazione, della rivoluzione tecnologica, dell’emersione di nuovi Paesi protagonisti nella comunità internazionale. Poi la crisi economica e finanziaria peggiore della storia recente. Sullo sfondo una rivoluzione demografica che si è tradotta, in buona parte dell’Occidente, in un invecchiamento progressivo della popolazione e in un aumento consistente dei flussi migratori, con ripercussioni facilmente intuibili per ciò che concerne la tenuta del vecchio modello di welfare State e le previsioni di universalizzazione dei diritti, coesione e protezione sociale ad esso sottese.

          In Italia a queste tendenze globali si è accompagnata, nell’ultimo decennio, una paralisi nella crescita economica tale da indurre numerosi commentatori a preconizzare, sempre più insistentemente, un rischio-declino per il sistema Paese nel suo complesso. Più di recente, queste prospettive declinanti – unitamente agli effetti concreti della crisi sull’economia reale e sul lavoro e a una fase di forte conflittualità politica – hanno contribuito a rafforzare un senso crescente di insicurezza e di sfiducia che ha investito principalmente le categorie sociali escluse da quella “cittadella dei diritti” eretta incrementalmente lungo tutto il Novecento: giovani inoccupati o sottoccupati, donne marginalizzate nel mercato del lavoro o costrette al ruolo di ammortizzatori sociali di riserva entro nuove tipologie di organizzazione familiare, anziani sempre più esposti a derive di marginalità e disagio. Sono i nuovi ‘vulnerabili’: milioni di cittadini cui il sistema sembra non più in grado di assicurare tutele e opportunità di realizzazione.

          Sul piano della psicologia sociale, la vulnerabilità – che pure sulla carta costituisce un tratto fisiologico della natura umana, perfino utile ai fini di un’indispensabile aderenza alla realtà – rischia di trasformarsi in incertezza, disincanto, paura o addirittura in rabbia se il suo tasso di intensità supera la soglia critica della normalità. Ciò avviene, ad esempio, in situazioni di decurtazione non prevista delle risorse, di perdita improvvisa delle garanzie, di mancanza di affidabilità delle istituzioni deputate a ridurre le disuguaglianze e a promuovere il benessere, oppure nel caso di eventi percepiti come casuali e incontrollabili, quali le catastrofi naturali o gli attentati terroristici. Dinanzi a queste possibili ripercussioni, le classi dirigenti hanno la responsabilità di disinnescare i conflitti e di provare a convertire la vulnerabilità del singolo in una nuova dimensione della socialità, basata sulla valorizzazione delle relazioni tra persone in funzione di obiettivi condivisi di coesione, equità, benessere diffuso.

          Quale che siano i parametri di misurazione da adottare e le contromisure da attuare, infatti, solo l’individuo inserito in un network solido di relazioni concentriche – l’”homo relatus”, per riprendere una concettualizzazione riconducibile al dibattito in corso sull’Enciclica Caritas in Veritate – può ragionevolmente provare a vincere le proprie incertezze. E ciò non solo rispetto al cambiamento avvenuto, o in atto, che incide sulla sua quotidianità, ma anche, a ben vedere, rispetto a un cambiamento atteso o promesso che, invece, sembra non arrivare mai. Basti pensare, in tal senso, alle aspettative frustrate di una generazione intera ingessata dalla mancanza cronica di mobilità sociale e meritocrazia, all’eterna dilazione di riforme strutturali reputate come indispensabili per sbloccare il Paese, farlo tornare a crescere e garantire a tutti pari opportunità (a partire da quelle di genere), oppure all’inveterata incapacità di risoluzione della questione meridionale.

          In ciascuno di questi casi – e comunque sullo sfondo della ricerca di un paradigma di sviluppo tutto ancora da scrivere che, di fatto, riguarda gran parte delle società occidentali – a risaltare pare essere in conclusione la richiesta, ad oggi purtroppo inevasa, di un progetto di futuro per il Paese. Un futuro da intendersi non come un diritto statico, ma come una costruzione paziente e lungimirante, scandita da obiettivi certi e soprattutto animata da una missione condivisa dall’intera collettività.