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Attività

Il consumatore del futuro: informato, globale, responsabile

    • Venezia
    • 9 Maggio 2014

          Il consumatore è oggi una figura sempre più fluida e resistente a essere letta attraverso paradigmi superati dai cambiamenti dirompenti introdotti dalle nuove tecnologie e da una crisi che ha ridefinito le priorità dell’individuo generando nuovi modelli di consumo. Il “nuovo” consumatore è craft consumer, consumautore, consumattore, prosumer ovvero una serie di termini, di etichette che definiscono un soggetto che ha raggiunto, grazie alla partecipazione e alla conoscenza, favorite dal web, un ruolo sempre più attivo nel suo rapporto con l’impresa.

          La vecchia asimmetria informativa, figlia di una comunicazione verticale da parte dell’azienda, ora viene soppiantata da un’orizzontalità che, se gestita in maniera sapiente, attraverso cioè un attento ascolto dei propri stakeholder, può non solo favorire un fruttuoso fine-tuning col proprio interlocutore,  ma può anche dar vita a nuovi prodotti o portare a miglioramenti di quelli esistenti.  L’empowerment del consumatore è una realtà, come lo è la sua complessità. Egli possiede infatti un’identità multipla (comprendendo in sé più identità e più stili di vita) che sfugge ai tentativi di segmentazione “tradizionali” e che si costruisce secondo coordinate e riferimenti autogestiti in base a preferenze soggettive e non più ai solidi punti di riferimento del passato quali erano la famiglia (essa stessa oggetto di ridefinizione), la religione, la scuola, lo stato e ora persino il lavoro, soppiantato dalla imposizione di una flessibilità che genera quella che Beck chiama la biografia del “fai da te”.

          È la società liquida di Bauman che, tuttavia, in realtà, porta ancora in sé delle possibilità di decrittazione se si adottano nuovi modelli di analisi. Sono, cioè, rintracciabili una serie di valori che possono e che devono informare di sé la relazione impresa-consumatore e che nascono, per contagio, dalle logiche che guidano il web. Diventano allora veri e propri imperativi, che governano l’agire delle imprese, valori quali la trasparenza, la veridicità, la sostenibilità, la relazionalità che ne rafforzano la reputation e che alimentano la fiducia dei consumatori.

          La comunicazione, per essere efficace, non può ignorare il proprio interlocutore, un soggetto multitasking che vive la propria vita immerso in una dieta multimediale: ecco allora che forme di espressione quali, ad esempio, il flashmob, il guerrilla advertising, i video virali, il branded entertainement e così via possono convivere accanto alla pubblicità televisiva classica, a costi senz’altro inferiori, arricchendone il messaggio alla luce di una comunicazione integrata, tale cioè da intercettare il soggetto anche negli spazi urbani, essi stessi luoghi di interazione attraversati da emozioni condivise.

          L’uomo è un animale sociale, un homo reciprocus disposto ad ascoltare e a seguire l’impresa (e a condividerne gratuitamente la missione come dimostrano diversi studi sul campo condotti sulle brand community) se quest’ultima è in grado di ispirare la sua azione e la sua comunicazione secondo parametri di rilevanza, riconoscimento, rispetto, reciprocità e risonanza. Tutti ingredienti per  favorire lo sharing, per rendere il messaggio virale nella consapevolezza che il web può essere buono o cattivo, come ogni altro media del resto, a seconda dell’uso che se ne fa e dell’etica che ispira o meno la sua azione. Nel primo caso la fiducia rafforza il brand, nel secondo la delusione lo affonda.

          L’impatto del web e dei nuovi media è stato dirompente: un vero tsunami digitale i cui effetti sul retail  sono stati in parte positivi, introducendo nel settore una maggiore democrazia, in parte negativi, rafforzando anche online la posizione di alcuni grandi oligopolisti, tra cui, ad esempio, Amazon. Al di là tuttavia di indubbie asimmetrie, presenti tanto nel mondo online che nel sempre più complesso e variegato mondo offline (si pensi al crescente peso delle MDD e alla necessità di attivare anche dei reloading delle policy tradizionali), il web rappresenta una grande opportunità per tutte quelle piccole e medie imprese che altrimenti sarebbero confinate al proprio ambito locale: l’opportunità cioè di varcare i propri confini, per rapportarsi al mondo intero, superando barriere spazio-temporali e, non meno importanti, di budget. Senza contare che sempre più numerosi sono gli esempi di startup, create dagli stessi consumatori, per produrre quei beni o fornire quei servizi di cui questi ultimi avvertono l’assenza.

          È in atto una grande trasformazione commerciale, di cui i comportamenti di acquisto sono emblematici, che unifica sempre di più on e offline: dal ROPO, acronimo che sta per research online purchase offline e che identifica l’abitudine di documentarsi in rete su un prodotto prima di procedere all’acquisto online, allo showrooming, fenomeno diametralmente opposto che consiste nel visitare il negozio per toccare con mano il prodotto e poi procedere con l’acquisto altrove ( tendenzialmente online e ad un prezzo più basso), alla crescita dell’uso di app, all’offerta di wifi negli store fino alle promozioni geolocalizzate. Il che non necessariamente è uno svantaggio per il punto vendita fisico purché diventi  sempre più customer-centric, sempre cioè più attento a coinvolgere il consumatore, sempre più piattaforma relazionale e “shearning”, tale cioè da unire shopping+learning, anche grazie al mondo digitale. Il nuovo commercio che si sta affermando richiede, dunque, più investimenti, più capacità ideativa e più approccio creativo alla tecnologia.  A tutto questo si aggiunga che il nostro Paese, capovolgendo il tradizionale think globally act locally in think locally act globally, ha concretamente tutte le carte per imporsi a livello internazionale in forza di prodotti resi unici proprio da un genius loci riconosciuto e amato in tutto il mondo.