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Attività

Gli investitori esteri in Italia e il loro contributo alla crescita del Paese

    • Roma
    • 26 Marzo 2009

          Il flusso degli investimenti diretti esteri – Foreign Direct Investment (FDI) – rappresenta un indicatore sintetico della capacità di attrazione e di competitività di un Paese. Analizzare, quantitativamente, l’incidenza delle partecipazioni estere sul sistema produttivo italiano e soffermarsi, qualitativamente, sulla loro distribuzione settoriale e sulla capacità di generare sviluppo diffuso nei territori, consente di tracciare un quadro dei punti di forza e di debolezza del sistema Italia, privilegiando una prospettiva di analisi esterna più oggettiva rispetto a quella prevalentemente autoreferenziale di cui siamo spesso ostaggio.

          L’analisi è tanto più utile nella fase di crisi economica in corso. Quest’ultima è giunta al termine di poco più di un quindicennio di crescita esponenziale degli investimenti esteri nel mondo. In Europa, tra il 1990 e il 2007, il peso dei FDI sul totale degli investimenti si è quadruplicato, con dinamiche che riflettono le accelerazioni della globalizzazione, gli effetti della rivoluzione tecnologica, la progressiva apertura di nuovi mercati. Con la crisi questo processo si è interrotto: al picco toccato nel 2007 ha fatto seguito, nell’anno successivo, un calo molto brusco, pari a circa il 21% del totale dei FDI. Per il 2009 le previsioni più ottimistiche indicano una diminuzione, in termini assoluti, di 770 milioni di dollari americani, cioè quasi il doppio di quelli “persi” nel 2008. Altri ancora prevedono una ripresa a regime del flusso degli investimenti diretti esteri solo nel 2011.

          In questo scenario, come si colloca l’Italia? Già prima della crisi scontava il prezzo di un’annosa incapacità di porsi al livello delle economie europee più avanzate. Il confronto con Regno Unito, Francia, Germania e, più di recente, Spagna, indicava una situazione stabilmente “sottoperformante” del sistema italiano, che tra il 1990 e il 2007, riusciva ad attrarre in media 22 miliardi di UDS, con una percentuale dei FDI (rispetto agli investimenti fissi lordi) pari a circa il 7%. Vale a dire, meno della metà della media europea (15%), e molto al di sotto del dato fatto registrare dalla Francia (18%), che ha, in termini assoluti, una capacità di attrazione tre volte superiore alla nostra.

          La crisi – che pure colpisce, con intensità evidentemente variabile, tutte le economie del mondo – rischia di esasperare ulteriormente questa tendenza. I dati parlano chiaro: nel 2008 il calo dei flussi netti FDI in Italia è stato del 95% su base annua, in Francia di circa il 28%. Eppure, nonostante le evidenze statistiche, per un Paese come il nostro la crisi può costituire un’opportunità, forse unica, per invertire queste e altre tendenze. Essa impone, infatti, un cambiamento che, per essere tale, dovrà investire proprio aree di policy che hanno, direttamente o indirettamente, un impatto rilevante sull’attrattività della nostra economia.

          Il sondaggio effettuato dal Comitato degli Investitori esteri di Confindustria – e illustrato sinteticamente nella Tavola Rotonda – fornisce una ricognizione indicativa dei principali giudizi dei manager di un campione di società multinazionali che hanno investito in Italia. La lista degli elementi di insoddisfazione è, anzitutto, uno specchio dei ritardi del Paese, peraltro tutti lamentati nel corso del successivo dibattito: procedure burocratiche lente e bizantine, elevato costo del lavoro, mancanza di certezza delle regole e instabilità politica, carenze infrastrutturali, costi dell’energia poco concorrenziali. Si tratta, a ben vedere, di fattori esogeni che minano la competitività complessiva dell’Italia, non solo l’attrazione degli investimenti esteri, e che necessitano comunque di interventi di riforma.

          L’analisi dei flussi FDI si sovrappone, dunque, a quella più generale, incentrata sulla ricerca delle leve da attivare per modernizzare il Paese, per scongiurare le tentazioni protezionistiche oggi più che mai dietro l’angolo, e per aprire il mercato, al fine di renderlo più competitivo ed efficiente. In altri termini, nell’Italia dell’imprenditoria diffusa gli investimenti arrivano se e quando il sistema “funziona”. Vale per quelli esteri, vale per quelli domestici. Basti pensare al differenziale cronico di sviluppo tra Nord e Sud del Paese e alla difficoltà di “fare impresa” in territori dove la sicurezza – o meglio l’assenza di sicurezza – è un problema quotidiano.  All’inverso, a far riflettere potrebbero bastare le best practice: l’esperienza della cosiddetta “Etna Valley”, negli anni scorsi, con il suo nesso virtuoso tra università, imprese e istituzioni, conferma che traguardi ambiziosi su internazionalizzazione e innovazione possono essere raggiunti con la programmazione e il dialogo con le parti sociali, anche a dispetto di condizioni ambientali di partenza oggettivamente sfavorevoli.

          In questa prospettiva, le soluzioni al rompicapo degli investimenti esteri finiscono per essere le stesse che servono al Paese per ripartire. Il confronto con la Francia è ancora una volta esemplare: economia matura, pressione fiscale alta, forte peso della rappresentanza sindacale sulla contrattazione del lavoro. A dispetto di questi elementi, spesso associati alla carenza di appeal per gli investitori, l’economia d’Oltralpe è attrattiva, quella italiana molto meno. Le ragioni di questo divario risiedono tutte nelle vivacità, anche demografica, della società francese, in una politica industriale incentrata sulla promozione delle filiere strategiche, specie sul versante dell’innovazione tecnologica, nell’efficienza delle infrastrutture, nella capacità di valorizzare, non solo sul piano turistico, l’immagine del Paese. Molti di questi obiettivi potrebbero essere raggiunti anche dall’Italia a costo zero. Altri – ad esempio, il sostegno agli investimenti in R&S attraverso lo strumento del credito d’imposta – si possono perseguire con una programmazione di politica economica selettiva e relativamente poco onerosa. In conclusione è finito il tempo dei rinvii sia per l’attrazione degli investimenti esteri, sia per le altre riforme di cui il Paese ha bisogno. La crisi impone il cambiamento. E lo impone subito.

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