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Attività

The future(s) of capitalism

    • Londra
    • 29 Marzo 2012

          Il capitalismo ha storicamente dimostrato una grande capacità di evolvere, adattandosi a contesti politici e tecnologici mutevoli. La conferma viene proprio dalle numerose varianti di rapporto tra stato e mercato che osserviamo oggi nelle economie più dinamiche al mondo. Quella che stiamo attraversando è la crisi – grave, ma forse non terminale – di un particolare tipo di capitalismo, che potrebbe accelerare il declino relativo dei paesi occidentali rispetto ad altre potenze emergenti. Va però tenuto presente che il grado di interdipendenza a livello globale è oggi molto alto, soprattutto per ragioni tecnologiche:  il sistema mondiale di scambi mostra quindi una forte sensibilità alle crisi locali, provocando fenomeni di volatilità e contagio rapido.

          In questo contesto, vi sono alcune importanti specificità nella diverse aree economiche a seguito della crisi iniziata nel 2008. L’Europa sta scontando una serie di questioni irrisolte al livello di assetto istituzionale, soprattutto nell’eurozona. Il problema fondamentale sembra essere l’insufficiente grado di applicazione delle regole concordate, piuttosto che l’inadeguatezza delle regole stesse – anche se restano alcuni interventi da realizzare con urgenza, particolarmente nel mandato della Banca Centrale Europea e nel settore bancario. Dunque, la carenza principale è di tipo politico, come conferma del resto la tendenza alla rinazionalizzazione del dibattito sugli interventi governativi. Si innesta su questo quadro la discussione in corso, dagli esiti molto aperti, sulla centralizzazione delle politiche fiscali e più ampiamente economiche. Il fiscal compact andrà valutato in base alla sua effettiva applicazione più che ai suoi principi generali, e comunque non sarà sufficiente ad superare gli ostacoli che frenano la ripresa e soprattutto le prospettive di crescita sostenibile.

          Gli Stati Uniti sembrano finalmente aver imboccato la strada di una vera ripresa, anche se restano molte incognite sulla gestione del debito pubblico. L’economia americana, nonostante la sua persistente capacità di rinnovarsi rapidamente, potrebbe poi subire le ripercussioni negative di uno o più shock energetici, che vanno considerati probabili nel medio termine viste le condizioni complessive del settore delle commodity, sia rispetto al rapporto tra domanda e offerta sia per ragioni politico-strategiche.

          La Cina sta avvicinandosi ad un punto di svolta su molti versanti: la delicata successione politica al vertice dello stato e del partito, in presenza di fenomeni crescenti di partecipazione civica e richieste pressanti di modernizzazione istituzionale a vari livelli; il cambiamento dei trend demografici a fronte di gravi carenze dei sistemi previdenziali e sanitari; l’esigenza di riformare profondamente il sistema bancario, come anche la gestione delle imprese di stato. Il cosiddetto “modello cinese” – basato sul ruolo forte e diretto dello stato nelle scelte economiche, con una “marchetizzazione” parziale del sistema di scambi – potrebbe aver raggiunto il suo limite fisiologico: richiede ormai delle profonde modifiche se il paese vorrà realizzare il suo pieno potenziale soprattutto sul piano dell’innovazione e del benessere diffuso. È chiaro che una serie di riforme istituzionali per introdurre una vera “rule of law” portano con sé un ripensamento del sistema politico. Altri mercati emergenti mostrano grande vitalità, ma restano vulnerabili alle tendenze globali, a problemi di assetto politico-istituzionale, e a possibili crisi regionali.

          Data l’origine della crisi, è inevitabile che il settore bancario sia tuttora al centro dell’attenzione, ma si sono manifestate anche altre vulnerabilità nell’assetto economico globale, legate soprattutto ai massicci squilibri che lo caratterizzano. Alcune variabili sono almeno tanto influenti quanto quelle strettamente finanziarie: la domanda interna in grandi economie come quella cinese rispetto all’export; le regole commerciali; i rapporti valutari; i trasferimenti di risorse necessari a gestire i sistemi previdenziali alla luce dei trend demografici. Le questioni bancarie vanno, dunque, inserite in un contesto assai più ampio e complesso, sebbene rimanga la constatazione oggettiva dell’enorme massa di ricchezza finanziaria creata negli ultimi anni rispetto all’economia reale.

          Le ripercussioni sociali della crisi sono gravi e vanno oltre la questione, pur cruciale, della disoccupazione e del rischio di una fase prolungata di bassa crescita. Si stanno, infatti, producendo forti tensioni nel tessuto stesso delle democrazie occidentali, rese più evidenti dai casi di recessione con pericolo di default con il loro seguito di misure di austerità. Il dato più preoccupante è lo schiacciamento della classe media, che tende ad accrescere le disuguaglianze e favorire i partiti o i movimenti più estremi.

          Nei paesi-membri dell’eurozona è emerso il problema ulteriore della legittimità politica di misure che sono spesso presentate come imposte dall’Unione europea – o più precisamente dai governi più influenti nella definizione delle politiche comuni. È chiaro che la posizione della Germania è in tal senso peculiare: esiste, dunque, una speciale responsabilità tedesca rispetto al mantenimento di un ampio consenso europeo anche al di là del principio formale della solidarietà.

          Un pericolo complessivo è la perdita di fiducia nei benefici della globalizzazione e del libero scambio, dovuta in parte alle tendenze populiste di vari movimenti politici sotto la pressione della crisi – un problema che riguarda anche gli Stati Uniti, dove è cresciuta sensibilmente la polarizzazione ideologica. In questo clima diventa ancora più decisivo che i leader siano disposti a prendere decisioni impopolari e a comunicare con chiarezza i termini dei problemi da affrontare.

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