Una mole enorme di dati provenienti da un’infinità di fonti, dagli uffici di statistica alle amministrazioni pubbliche, passando per internet. Questo è il regalo che le nuove tecnologie fanno a chi sa orientarsi nel mare dei big data. Anche le informazioni più banali presenti sui social network, infatti, se ben analizzate, possono diventare un valido strumento per creare PIL e occupazione. A spiegarlo è un esperto del settore come Euro Beinat, convinto che la data science sia capace di migliorare l’efficienza dei settori più importanti dell’economia italiana, iniziando dalla manifattura e dal turismo.
A che punto è l’Italia nella raccolta e nell’utilizzo dei big data?
Piuttosto che di big data preferisco parlare di data science, una disciplina vasta che non ha una geografia specifica e può comportare grandi vantaggi competitivi a chiunque abbia le capacità, le competenze e gli strumenti per sfruttare al meglio i dati. In Italia vediamo una certa attività in questo campo da parte delle aziende con profilo internazionale, che sono costrette a utilizzare questi strumenti per rimanere competitive, e molti limiti da parte delle istituzioni. In generale, non esistono grandi problemi di infrastrutture fisiche: l’utilizzo ottimale di questi dati è legato alla capacità di innovare. L’Italia è qualche passo indietro rispetto agli Stati Uniti e ad altri Paesi del Nord Europa, ma questa non necessariamente è una notizia negativa: ci sono infatti ancora moltissime opportunità da sfruttare.
Ci può fare qualche esempio?
Con il mio gruppo di ricerca all’Università di Salisburgo ho lavorato su uno dei settori principali dell’economia italiana: il turismo. Si tratta di un comparto di particolare interesse non solo perché ha un peso considerevole sul PIL italiano – nell’ordine di grandezza del 10% – ma anche perché presenta caratteristiche di frammentazione dell’offerta e di mancanza di coordinamento che rendono molto interessante un miglioramento in termini di efficienza. Molte aree urbane, ad esempio, sono ancora gestite con dati frammentati, disponibili dopo mesi o anni dal fenomeno che descrivono, troppo aggregati per essere utili e che quasi mai prevedono il future: descrivono solamente il passato e quindi non garantiscono una adeguata visibilità sul flusso di quella che definiamo la popolazione transitoriale dei turisti. Le politiche di promozione, in assenza di dettaglio sul fenomeno che intendono influenzare, e senza prova che questa influenza funzioni, si rivelano spesso inutili: meglio puntare con forza allora sull’analisi dei dati disponibili e sull’utilizzo dei nuovi dati. In questo scenario di inefficienza strutturale, infatti, anche un piccolo miglioramento si può trasformare in PIL e in posti di lavoro.
Quali investimenti può fare l’Italia per migliorare l’efficienza del proprio settore turistico?
Lo studio che abbiamo realizzato a Salisburgo, per quanto sperimentale, dimostra che i dati per studiare i flussi della popolazione turistica a livello nazionale sono generalmente reperibili: attraverso i social network, i blog, i grandi aggregati di dati telefonici e bancari, siamo stati in grado di ricostruire non solo dove vanno e cosa visitano i turisti, ma anche come parlano, in seguito, dell’esperienza vissuta in Italia. Elaborare questi dati non è banale, ma non richiede nemmeno investimenti proibitivi e può essere realizzato in poco tempo.
Oltre al turismo ci sono altri settori che possono trarre benefici dall’utilizzo della data science?
Vista la pervasività delle tecnologie, i settori cui si applica l’analisi dei dati possono essere i più vari. I benefici maggiori però, oltre che nel turismo, si possono ritrovare nella gestione e nel controllo delle filiere industriali, con ricadute positive sulla distribuzione, ma anche sulla manifattura. L’analisi dei dati permette, infatti, notevoli miglioramenti nella logistica, settore in cui i grandi gruppi del settore stanno elaborando modelli predittivi che permettono di strutturare il business guardando al futuro anziché al passato. Inoltre, un altro settore di grande interesse è quello sanitario. In questo caso però alcune applicazioni avanzate, come l’impianto nel corpo umano di dispositivi che trasmettono i dati del paziente, stanno facendo sorgere dispute legali sulla proprietà dei dati.
Esistono, quindi, rischi dovuti all’utilizzo di questa grande mole di dati personali? Come limitarli?
I rischi esistono e non dobbiamo dimenticarci che lo sviluppo della data science non riguarda solo le tecnologie, ma anche le regole. Purtroppo, però, la privacy è un tema che si tratta ancora con troppa leggerezza e superficialità. Durante un corso sull’etica dei dati che tengo a Salisburgo sono solito sottoporre un questionario ai miei studenti: il risultato è che la grandissima maggioranza di loro è preoccupata per l’utilizzo che viene fatto dei dati personali, ma pochissimi sono in grado di dire quali dati sensibili hanno diffuso e chi li detiene. Questo, a dire il vero, è reso ancora più difficile dal processo di trattamento dei dati stessi, che vengono raccolti da alcuni soggetti, ma poi aggregati e diffusi da altri, attraverso una catena poco trasparente e difficile da controllare. Non dimentichiamoci, però, che l’analisi dei grandi aggregati di dati è un fenomeno in divenire in cui la cautela è importante, ma non deve fare perdere di vista le grandi opportunità esistenti in termini di crescita e innovazione.
Euro Beinat è professore di “Geoinformatics and Data Science” all’Università di Salisburgo ed è Vice President di Zebra Technologies Corporation, società quotata con sede a Chicago, con il ruolo di responsabile della strategia per l’evoluzione dell’Internet of Things. Come esperto in questi settori serve come advisor di enti pubblici e aziende dal punto di vista strategico e degli scenari di lungo periodo. È membro della comunità dei “Talenti italiani all’estero” di Aspen Institute Italia.