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Per vendere in Asia bisogna metterci la faccia. Intervista a Tomaso Andreatta

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    • 28 Novembre 2013
    • Novembre 2013
    • 28 Novembre 2013

    Tomaso Andreatta ha fondato la Camera di Commercio Italiana in Vietnam – Icham, di cui è stato il primo presidente e con cui ha firmato l’accordo di partecipazione a Eurocham Vietnam. Si occupa soprattutto di investimento italiano nel Sud Est Asiatico, commercio internazionale e finanza di progetto. In Eurocham, di cui è vicepresidente, segue l’integrazione dell’ASEAN, la Corporate Social Responsibility, la Corporate Governance e la lotta alla corruzione insieme al governo vietnamita.

    Un mercato da 600 milioni di persone con una classe media emergente, salari bassi e ottime condizioni per investire. Il Sud Est Asiatico e l’unione doganale dell’ASEAN (Association of South-East Asian Nations) offrono grandi opportunità alle imprese italiane. E in alcuni Paesi, iniziando dal Vietnam, esiste anche un forte sostegno all’internazionalizzazione da parte delle istituzioni nazionali ed europee. L’imprenditore, anche se piccolo, deve però “metterci la faccia” e “venirsi a prendere” un mercato che va compreso da vicino per sfruttarne al meglio il potenziale. Tomaso Andreatta, fondatore della Camera di Commercio italiana in Vietnam, spiega al sito di Aspen le occasioni che questa regione del mondo offre alle grandi – e piccole – aziende italiane.

    Il Sud Est Asiatico è a suo avviso un’area promettente per le imprese italiane?
    Certamente, e la grande opportunità è legata alla zona ASEAN di cui il Vietnam è sicuramente la migliore porta d’entrata. L’ASEAN riunisce 600 milioni di persone e già oggi è un’area di scambio doganale con tariffe comprese nell’intervallo fra lo 0 e il 5%. Per il 2015 dovrebbe nascere un mercato comune sull’esempio europeo, anche se molti osservatori – me compreso – sono scettici al riguardo, soprattutto per quanto riguarda la libera circolazione dei lavoratori. Resta il fatto che, comunque, il business si sta muovendo più velocemente delle istituzioni e siamo di fronte a un’area sempre più unita dai flussi commerciali.

    Fra tutti i Paesi, il Vietnam – con 90 milioni di abitanti – offre un mercato sufficientemente ampio e un sistema che, nonostante la burocrazia, funziona abbastanza bene. È diffusa, infatti, una mentalità produttiva – facilitata anche dal Confucianesimo e dal Buddhismo di tradizione mahayana, meno fatalista – e vi sono buone basi per lo sviluppo economico: gli investimenti esteri sono protetti e nel Paese il 60% dell’export è già realizzato da stranieri. Chi viene a portare tecnologia e lavoro, insomma, è ben accetto.

    Quali occasioni di business possono aprirsi, in concreto, per le imprese italiane?
    L’Italia ha buone aziende meccaniche di media tecnologia e per alcuni settori, in cui la manodopera pesa fino al 50% del costo finale del prodotto, diventa molto interessante venire a produrre qui per servire il mercato asiatico, visto che i salari sono un decimo di quelli italiani L’opportunità da cogliere deve essere quella di servire meglio un mercato in forte crescita in cui siamo generalmente poco presenti, tenendo in Italia produzioni di alta qualità. Così come oggi siamo fornitori dei tedeschi credo che, nel Sud Est Asiatico, esistano buone prospettive anche per la fornitura a grandi gruppi giapponesi e coreani.

    Quali sono, quindi, gli investitori  più attivi nell’ASEAN?
    Le aziende più importanti in quest’area sono giapponesi, coreane, taiwanesi e singaporiane e hanno investito molto seriamente per ragioni di costo, ma anche strategiche. Del resto la Cina sta diventando un investitore molto presente e Paesi come il Giappone sopportano investimenti anche poco remunerativi, o addirittura a rendimento zero, pur di mantenere un piede in questi mercati e non lasciare troppo spazio a Pechino. Si tratta di un’area dove, invece, l’Europa è in generale poco presente rispetto al proprio peso economico: in Vietnam, ad esempio, i Paesi europei mettono insieme 26 miliardi di dollari in investimenti produttivi, quando, preso da solo, il Giappone ne ha quasi 34, e Corea, Taiwan e la piccola Singapore 28 ciascuna.

    In che modo il  sistema italiano sostiene gli investimenti aziendali in Vietnam?
    Il problema del sistema produttivo italiano è la frammentazione: molte  aziende vengono a vendere componenti quando altri Paesi, penso alla Germania, forniscono impianti chiavi in mano.

    Bisogna dire però che le istituzioni italiane in Vietnam (Ambasciata, ICE, Camera di Commercio) lavorano molto bene insieme e hanno aumentato di recente la propria attenzione verso le piccole imprese. In parallelo, esiste l’azione complementare delle istituzioni europee che, ad esempio, in ciascun Paese della regione hanno spinto alla formazione di un “trade center” per le PMI volto a sostenere soprattutto le nazioni europee meno presenti. Non dimentichiamo, infine, che i grandi gruppi possono essere interessati a portare con sé, nel processo di internazionalizzazione, i propri fornitori. E questo non tanto per ragioni di nazionalità, quanto perché è naturale e conveniente continuare a lavorare insieme quando esistono rapporti consolidati.

    Cosa serve,  allora, gli imprenditori italiani per riuscire a vendere in quest’area?
    In Asia, per vendere, ci vuole una presenza locale e un impegno personale dell’imprenditore. Per la cultura della regione, più che le leggi, importano le relazioni personali. Bisogna “metterci la faccia”, costruirsi una reputazione e poi spenderla. Mi è capitato di vedere affari andare a monte perché l’imprenditore non si è presentato di persona. Come investimento basta in realtà un ufficio di rappresentanza oppure –  visto che parliamo di imprese meccaniche – anche un piccolo stabilimento di assemblaggio. Sono impegni finanziariamente molto contenuti, sostenibili anche per aziende con 50 dipendenti, e capaci di garantire buone prospettive e un miglior adattamento dei prodotti alle esigenze del mercato. Del resto siamo in un’area in cui, man mano che la popolazione diventa più ricca ha bisogno di tutto, dall’utensileria agli accessori di lusso. E l’Italia può aprirsi a questi mercati, ma solo se davvero se li viene a prendere.