La distanza ravvicinata tra le persone in coda, le partite a carte con un vicino, l’ospitalità straordinaria,ma diversissima dalle abitudini americane: Salvatore Scibona (scrittore italoamericano considerato dal New Yorker fra i 20 migliori autori under 40) ha riscoperto così quel mondo che viveva nei racconti dei suoi nonni e che poi ha deciso di raccontare in “La Fine”, storia di emigranti italiani nell’America degli anni Cinquanta. Una cultura, quella italiana, che per Scibona – membro della comunità dei Talenti italiani all’estero di Aspen – vive nelle persone più che nei monumenti e rappresenta un contraltare all’individualismo su cui ancora si basa il mito fondatore degli Stati Uniti.
Perché hai deciso di scrivere un libro sugli emigrati italiani nell’America del dopoguerra?
Il mio metodo è seguire le domande più urgenti che emergono dal subconscio. Quando ho iniziato a scrivere non avevo un’intenzione particolare: non avevo un’ambientazione, non avevo personaggi, non avevo praticamente niente, solo dettagli. Ma poco a poco tutti questi dettagli si sono organizzati intorno a un periodo della vita, non mia, ma dei miei nonni. Un periodo appena successivo all’emigrazione, di cui ho sentito parlare moltissimo e che mi sembrava appartenere a un mondo completamente perso. I miei nonni erano europei, però i miei genitori non parlavano né italiano, né polacco, le loro lingue d’origine.
Una cultura così forte era completamente scomparsa nel giro di una generazione: quando sono nato io di quel passato era rimasta solo la memoria. L’unico modo per me di toccarlo e di riviverlo era reinventarlo. In questo percorso mi ha aiutato avere un’istruzione particolare. Ho frequentato un’università – il St. John’s College a Santa Fe, New Mexico – in cui il programma di studi è basato sui grandi filoni della cultura occidentale: letteratura, filosofia, matematica, economia. Il pensiero dell’Occidente da Omero in poi, insomma. Questo mi ha dato modo di sentirmi parte di un mondo che collega entrambe le sponde dell’Atlantico. La mia avventura in Italia è iniziata, invece, con una borsa di studio Fulbright. Fra la trentina di borsisti del mio anno ero l’unico di origini italiane, ma anche l’unico che non era mai stato in Italia. Avevo bisogno di imparare tutto dall’inizio.
Quali le impressioni del tuo primo viaggio in Italia?
Durante il periodo della Fullbright sono stato a Roma e a Catania. Le idee che avevo sull’Italia erano abbastanza diverse dalla realtà. Del resto avevo 24 anni e fino ad allora non ero mai uscito dagli Stati Uniti. La mia prima impressione sull’Italia è legata a una coda: la gente che aspettava in fila era per me molto, troppo vicina. Quando ho visto una persona a così poca distanza da me, mi sono stupito e ho subito pensato che si fosse avvicinata per dirmi qualcosa. Alla fine questo è diventato un tema del mio romanzo. La dimensione individuale ha più spazio negli Stati Uniti che in Italia; lo spazio fisico a disposizione degli americani è maggiore, ma credo che questo sia anche un simbolo di cose molto più complicate, fattori sociali ed economici.
Gli emigranti siciliani di una volta si pensavano come una famiglia: la loro sfera individuale si sovrapponeva e coincideva con quella familiare. Se trovavano fortuna la trovavano tutti insieme, non come singoli. È il contrario degli ideali americani, basati sull’individualismo, ma l’idea che ognuno con il suo cavallo possa cercarsi fortuna da solo è un falso mito: in realtà anche i pionieri del West si muovevano in gruppo.
In Italia, del resto, per vedere l’importanza del contatto umano basta farsi una passeggiata: nelle piazze ci sono spesso capannelli di gente, persone che parlano in gruppi di sei, sette, otto. Questo non me lo aspettavo, ma è stato bello. È una differenza che mi ha affascinato, però anche spaventato. Non è stato facile, infatti, abituarsi a questa diversità culturale: ricordo di una volta in cui, ospite in Sicilia, ho assistito a un litigio fra tre signore anziane su chi mi potesse lavare i vestiti. Mi sono imbarazzato tantissimo. Certo, da un altro punto di vista è stato magnifico; è magnifico sentirsi così benvenuti; è magnifica questa accoglienza così calda e generosa.
L’Italia può essere ancora fonte di ispirazione per uno scrittore come ai tempi del Grand Tour? É difficile per un artista confrontarsi con un passato così “presente” e importante?
Le persone che conosco, gli scrittori soprattutto, sono in gran parte turisti culturali. Non in maniera superficiale, certo, ma il loro legame con l’Italia è riconducibile a una città o a un monumento. Io, invece, quando abitavo a Roma, pur vivendo vicinissimo al Vaticano, non sono mai stato alla Cappella Sistina. È stupido, certo, ma per me i legami sono fatti di conoscenze, sono costruiti da persone che vedevo tutti giorni e parlavano una lingua che a quel tempo non potevo capire. A Roma giocavo spesso a carte con un mio vicino: questo contatto è per me un ricordo più forte di qualsiasi monumento.
Dal punto di vista della scrittura penso, che gli americani siano più liberi di descrivere ciò che vedono, che lo possano fare in maniera molto diretta. Mi sembra, infatti, che l’arte italiana sia più condizionata, debba essere per forza in dialogo con il passato; un passato così enorme da spaventare. Quando compro un romanzo negli Stati Uniti trovo la copertina e il testo; spesso in un romanzo italiano trovo l’introduzione, la prefazione e, finalmente, dopo cinquanta pagine inizia il testo vero e proprio.
C’è una ricchezza grandissima nella cultura italiana, ma ci sono anche un sacco di talenti che devono andare all’estero per far crescere i propri progetti. È una situazione complessa e per questo estremamente interessante. La mia educazione e la mia famiglia mi hanno spinto a conoscere l’Italia e mi hanno dato l’entusiasmo per scoprire la sua grande cultura: mi piace scrivere con la consapevolezza del passato, delle origini, della letteratura, della filosofia, della religione. E forse proprio perché sono americano questo passato, anziché imprigionarmi, mi stimola enormemente.