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L’industria al centro

  • Venezia
  • 5 Ottobre 2024

        Il rilancio della crescita economica in Europa è sempre più riconosciuto come una condizione necessaria per mantenere adeguate condizioni di sviluppo e benessere dei cittadini. Allo stesso tempo cresce e si diffonde l’esigenza di affrontare, e non subire, le transizioni energetica e digitale oltre che i trend demografici. Centrale è anche il bisogno di tutelare la sicurezza, riducendo le dipendenze in settori strategici, che si riflettono ad esempio in forti tensioni sui costi e sugli approvvigionamenti delle materie prime.

        Tutti questi fenomeni, inquadrati in uno scenario geoeconomico di grande complessità, stanno facendo aumentare l’attenzione dei policymakers e della società europea sull’esigenza di rafforzare la competitività dell’industria, con politiche moderne ed efficaci. Del resto nessun Paese può affrontare da solo le sfide potentissime di questi anni e la concorrenza sia dei macrosistemi globali —come Stati Uniti o Cina — sia di altre dinamiche economie asiatiche.

        Sono necessarie azioni e regole europee, superando l’attuale frammentazione fra Paesi che dipende anche dell’assetto istituzionale dell’UE; tali misure devono essere in grado di rafforzare l’industria senza entrare in logiche protezionistiche che restringerebbero gli scambi commerciali e lo sviluppo. E, soprattutto, devono mantenere un contesto “aperto” per l’innovazione, che sta trasformando molti settori industriali ed è in grado di portare effetti molto positivi alla società. 

        Le nuove regole dovranno necessariamente essere migliori e fondate non su logiche meramente “mercatiste”, ma su valutazioni più approfondite in relazione all’impatto delle policy sulla struttura dei settori industriali. Questi, infatti, hanno bisogno di tempo e flessibilità per adattarsi, affrontando cambiamenti e innovazioni, specie in una fase storica che sta già imponendo vincoli operativi molto stringenti. 

        È necessario, quindi, fare scelte con una visione di lungo periodo sui settori strategici e sulle specializzazioni europee, con l’impegno di definire politiche in grado di portare benefici in tutti i Paesi. Questa esigenza richiede anche un nuovo metodo di analisi del valore dell’industria, in grado riconoscere le eccellenze e migliorarle come punto di partenza per una trasformazione che consenta di crescere anche nel lungo periodo; ciò permette di rispondere alla competizione internazionale, alla necessità di generare e recepire l’innovazione, allo sviluppo della società e quindi della domanda. 

        La politica industriale, del resto, è “tornata di moda”. Per renderla efficace è fondamentale un’offerta adeguata e di qualità nelle analisi di economia industriale che richiedono conoscenza dinamica dei fenomeni e capacità di valutarne gli effetti — spesso asimmetrici — su occupazione, investimenti e produttività di Paesi, settori, aziende. Un tale metodo strutturale di confronto tra gli stakeholder diventa, così, uno strumento competitivo capace di migliorare le politiche industriali e la regolamentazione dei mercati.

        L’Italia può contribuire in modo determinante ad affermare i valori dell’industria in Europa, sia per la presenza di una struttura economica molto diversificata e innovativa — che è patrimonio per tutta l’UE — sia per la presenza di un’importante tradizione accademica, accanto a una cultura industriale molto evoluta. Da non sottovalutare, inoltre, la presenza di corpi intermedi che possono avere un ruolo positivo nel dialogo tra istituzioni e aziende.

        L’Italia è il secondo Paese manifatturiero d’Europa, quarto al mondo per export, dopo aver superato Corea del Sud e Giappone. Negli ultimi 10 anni il valore aggiunto manifatturiero è cresciuto — secondo i dati Eurostat — del 47%, più della media di Germania, Francia e Spagna ferma al 36%; un progresso che è evidente anche in rapporto agli addetti, campo in cui l’Italia cresce del 44% rispetto al 31% di media delle principali economie europee.

        Le politiche industriali saranno fondamentali per preservare questo valore e consentire alle aziende di ridefinire i modelli di business, rispondendo a gap strutturali vecchi e nuovi, in particolare per quanto i trend demografici e la difficoltà di reperire manodopera. A tal fine rimangono strategiche le azioni per migliorare la “produttività” dei percorsi formativi, con un’alleanza strategica tra istituzioni, aziende, corpi intermedi e accademia, per mappare le competenze necessarie – sia nelle aziende sia nella Pubblica Amministrazione – e definire le esigenze per la formazione accademica e tecnica. Inoltre, per rendersi attrattive, le aziende sono chiamate a riconoscere e saper interpretare le tendenze evolutive della società, ad esempio il valore che i giovani danno a fattori quali welfare, gestione del tempo, autonomia e crescita personale. 

        In parallelo, rimane cruciale lavorare in collaborazione con i Paesi extraeuropei — a partire da quelli della sponda sud del Mediterraneo e dell’Africa in generale — per consentire alle aziende di assumere lavoratori, dopo una formazione che li abbia già avvicinati alla cultura italiana e che consenta un migliore inserimento nel mondo del lavoro, in una logica di scambio e non di brain drain. Un valore economico che è anche interesse nazionale in ottica di diplomazia culturale e di soft power.

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