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La guerra Israele – Hamas e le sue conseguenze geopolitiche ed economiche

  • Roma
  • 7 Novembre 2023

        Un punto di partenza – politico e militare – per analizzare gli eventi del 7 ottobre 2023 è l’effetto sorpresa, di fatto un vero shock per l’intera regione e per la comunità internazionale. È indubbio che, da parte di Israele, vi sia stata una grave impreparazione militare e di intelligence a fronte dell’attacco sferrato da Hamas, e che l’impatto sia stato straordinario per la sua brutalità e per le sue dimensioni.

        Dalla prospettiva israeliana – non soltanto dell’attuale governo – Hamas non può considerarsi in alcun modo una controparte negoziale in futuro e neppure un attore che si possa integrare in un percorso diplomatico complessivo con i palestinesi. Questa è la premessa delle operazioni militari in corso a Gaza e degli assetti regionali in evoluzione. Il canale di dialogo con l’Arabia Saudita che era stato avviato, in particolare, può riprendere e anzi accelerare sulla base di comuni interessi economici e diplomatici, ma sono necessarie precondizioni di sicurezza che al momento non sono ancora mature.

        Il conflitto si sta sviluppando su tre livelli simultaneamente. Il primo vede Hamas contro Israele, con classici obiettivi terroristici (e una risposta israeliana simile a quella post-11 settembre da parte degli Stati Uniti e poi della coalizione internazionale anti-Daesh/ISIS). Un secondo livello è il tentativo iraniano di bloccare la normalizzazione israelo-saudita, che potenzialmente avrebbe potuto coinvolgere in una fase successiva gli stessi palestinesi (e qui si apre un’opportunità post-conflitto per accelerare questo percorso negoziale, in cui però deve emergere una leadership palestinese disposta a seguire questa linea). Un terzo livello è legato alla decisione russa di parteggiare apertamente per Hamas, in un vero rovesciamento delle tradizionali posizioni di Mosca verso Israele; il calcolo di Putin sembra essere stato legato al vantaggio di aprire un nuovo fronte contro le democrazie occidentali e non soltanto un fronte arabo-iraniano contro Israele.

        Quanto ai livelli di analisi regionali e perfino globali, si può però anche notare che il cosiddetto “asse della resistenza” si sta in realtà rivelando meno compatto di quanto si potesse pensare: sia Hezbollah che l’Iran hanno cercato esplicitamente di distanziarsi da Hamas, quantomeno rispetto alla diretta responsabilità per gli attacchi del 7 ottobre. La stessa agenda politica di Hamas sembra non del tutto coerente con gli interessi regionali che questi due attori stanno perseguendo.

        In chiave globale, il terrorismo è spesso una reazione violenta contro l’integrazione dei mercati e la libera circolazione delle idee e dell’innovazione; anche in questo caso assistiamo probabilmente a un fenomeno del genere, che peraltro coinvolge almeno in parte le masse arabe non soltanto in Palestina. La risposta non può perciò essere soltanto di tipo militare, come lo stesso Presidente Biden ha ricordato con toni accorati al premier israeliano, Netanyahu – facendo un diretto riferimento all’esperienza americana e agli “errori” commessi sull’onda degli attentati del settembre 2001.

        Certamente vi sono molti segnali di una convergenza, quantomeno opportunistica, tra varie potenze revisioniste e ostili agli Stati Uniti nell’aprire fronti conflittuali multipli che di fatto impediscono a Washington di concentrare le proprie risorse sulla competizione con la Cina, e simultaneamente creano spazi di manovra per attori regionali. L’Iran, in ogni caso, ha visto un potenziale vantaggio nel rallentare e ostacolare il riavvicinamento israelo-saudita, sebbene sia presto per dire che l’obiettivo è stato raggiunto dalla prospettiva di Teheran: secondo alcuni partecipanti, rimane un fondamentale interesse dei governi arabi nel favorire nuove forme di sviluppo economico e dunque nell’impedire che il dialogo diplomatico sia ostaggio di azioni violente di gruppi armati.

        Altri ritengono che Teheran non intenda comunque oltrepassare una sorta di linea rossa – un attacco massiccio di Hezbollah contro Israele – che provocherebbe una diretta reazione aerea israeliana contro obiettivi in territorio iraniano. In tal senso, si può dire che la funzione di deterrenza non sarebbe svolta principalmente dalle capacità americane nella regione, ma da quelle israeliane, che però potrebbero non essere sufficienti allo scopo senza un più ampio supporto internazionale.

        La prospettiva turca sugli eventi in corso, inoltre, non è favorevole a qualsiasi tipo di ulteriore escalation regionale, vista la grande fragilità degli equilibri mediorientali e le stesse ambizioni di Ankara in vari contesti locali che in sostanza non beneficerebbero di un conflitto più ampio. Resta comunque da parte turca una dura critica della posizione americana nel sostenere Israele praticamente senza limiti. C’è anche notevole delusione per l’assenza di una vera posizione attiva da parte dell’UE – osservazioni su cui concordano quasi tutti gli stessi osservatori europei. Quanto al futuro dei rapporti della Turchia con Israele, molto dipenderà da quanto Tel Aviv sarà disposta a tornare alla visione dei due Stati come soluzione strutturale alla questione palestinese e come base possibile di un’intesa multilaterale per garantire maggiore stabilità alla regione – il che, nella visione turca e del mondo arabo, ha ben poco a che fare con l’eventuale eliminazione o il forte ridimensionamento di Hamas.

        E stato osservato che, in ogni caso, al momento non siamo di fronte ad un conflitto bellico tradizionale. Essendo per ora quella di Israele una grande operazione antiterrorismo, è fondamentale vincere la battaglia della comunicazione e anche quella per la legalità – proprio per consentire una nuova fase di apertura negoziale in chiave multilaterale. Sono stati però espressi molti dubbi sul classico approccio dei “Due Stati” per pacificare e stabilizzare i rapporti israelo-palestinesi: secondo alcuni, quell’approccio è stato del tutto abbandonato in realtà e non è più realistico; secondo altri, è ancora attuabile ma richiede importanti aggiustamenti oltre all’attiva collaborazione dei maggiori Paesi arabi.