La democrazia perde colpi. Anche e soprattutto perché è altamente inefficiente: una democrazia che non decide non soddisfa uno dei suoi requisiti fondamentali. In crisi ormai da anni, i sistemi politici occidentali soffrono la “concorrenza” delle autocrazie. Ovvero: i problemi da affrontare prevedono processi decisionali lenti e complessi che coinvolgono le pubbliche opinioni, ma le leadership democratiche hanno spesso come fini obiettivi elettorali di corto periodo e sono costantemente sottoposte alla pressione dei corpi intermedi, dell’opinione pubblica, della stampa e, in maniera crescente e pervasiva, dei social network. Le autocrazie hanno vita certamente più semplice: le decisioni vengono prese in velocità perché non esistono né un confronto né un contradditorio, senza i quali, tuttavia, aumentano le possibilità di commettere errori nell’azione politica. La velocità, quindi, non garantisce la qualità.
I sistemi democratici hanno perso efficienza da quando le parti politiche hanno iniziato a rappresentare i diversi interessi senza cercare una mediazione e una sintesi, mostrando agli occhi di una pubblica opinione sempre più esigente l’inefficienza dei meccanismi e l’incoerenza dei risultati. E sono proprio russi e cinesi, per primi, a ironizzare e a puntare su questa fragilità.
Il pensiero liberaldemocratico occidentale si basa sul dogma che democrazia e mercato debbano viaggiare insieme. La Cina sembrava aver rotto il tabù con un’economia capace di crescere e prosperare anche sotto il controllo di un partito unico, ovvero di un potere intrusivo che entra nell’economia, la scuote e la plasma. Il tonfo del mercato immobiliare e le recenti difficoltà della crescita cinese fanno, però, tornare nuovamente in auge – laddove la crisi dovesse essere strutturale e non momentanea – il dogma occidentale: c’è mercato solo con democrazia e libertà.
Del resto, seppure non goda di buona salute, la globalizzazione ha avuto i suoi meriti: nel 1990 versava in povertà estrema il 36% della popolazione mondiale, percentuale oggi diminuita al 13%. Come sosteneva Adam Smith il divario eccessivo tra ricchi e poveri non fa funzionare l’economia. Con la crisi della globalizzazione e la pandemia, in un mondo avviato verso un crescente disordine, lo Stato è ritornato protagonista ed è diventato “assicuratore di ultima istanza”. Cambiano così i termini del rapporto tra Stato e mercato: fino al 2010 il mondo occidentale ha vissuto l’età del Washington Consensus dove il gas dalla Russia costava poco e si acquistavano in Cina merci a basso prezzo. In un quadro oggi molto diverso il commercio internazionale ha delle ottime performance di cui il mercato beneficia, ma al tempo stesso la pandemia, la guerra in Ucraina, i problemi alle catene del valore, il fenomeno, ancorché limitato, del reshoring, la crisi energetica e lo scoppio dell’inflazione hanno richiesto e continuano a richiedere un rinnovato ruolo dello Stato. Questo deve passare innanzitutto da un migliore regolazione e da un accresciuto funzione di garante degli equilibri politici e sociali.
Lo Stato adeguato all’oggi diventa, quindi, una sorta di “organismo” in cui tutte le parti funzionano a dovere per i cittadini e per le imprese. Gli si chiede di intervenire laddove il mercato faccia fatica a svilupparsi autonomamente, senza dimenticare che alcuni interventi normativi favorevoli allo sviluppo dei mercati sono peraltro a costo zero.
Gli Stati Uniti attraverso l’Inflation Reduction Act – una misura che alcuni giudicano un atto di vero e proprio protezionismo – sono intervenuti per bloccare l’inflazione e far ripartire l’economia. L’Europa continua, invece, a mettere in discussione gli aiuti di Stato, come dimostra la questione non ancora risolta Ita-Lufthansa. Il punto vero è che all’interno dell’Europa – che è stata definita “paradiso della negoziazione” – alcuni Stati hanno lo spazio fiscale per aiutare le imprese, cosa che non succede per altri. Su questa strada si rischia di arrivare alla distorsione del libero mercato e all’alterazione delle condizioni di competitività. Peraltro, la metà degli aiuti di Stato in Europa finisce in Germania, mentre un quarto è diretto in Francia.
In ambito globale non c’è solo la concorrenza tra imprese, ma anche di concorrenza tra Stati e ogni Stato sceglie di offrire le migliori condizioni di contesto per accogliere e attrarre aziende straniere. In questo scenario conta chi ha il portafoglio più grande e una maggiore capacità organizzativa. Con un paradosso, tra i tanti: il mercato globale deve farsi carico dei beni pubblici globali come salute, cambiamento climatico e sopravvivenza del pianeta, senza dimenticare che la produzione di beni pubblici globali passa attraverso la produzione dei beni privati.
Il capitalismo – si è ironizzato – ha i “secoli contati” e non morirà certo troppo presto. Il capitalismo italiano, in larga parte manifatturiero, richiede peraltro investimenti di medio-lungo periodo. Anche perché è composto essenzialmente da imprese famigliari che hanno la capacità di focalizzarsi sul medio-lungo termine perché non necessitano un ritorno immediato, tipico del mondo finanziario, e sono capaci di reinventarsi anche attraverso l’innovazione. In più va considerato il mondo delle microimprese: esiste in Italia un numero di Partite IVA che rappresenta il 50% del PIL e che è superiore a quello di Francia e Germania. Anche le banche di famiglia hanno ottime performance perché in questo modello gli interessi dell’azionista coincidono con gli interessi dei clienti.
5500 sono le società con partecipazione pubblica e più del 50% sono a completo controllo statale. Un numero, secondo alcuni, obiettivamente eccessivo che pone un problema politico: non tutte le aziende sono strategiche e alcune vanno eliminate secondo una chiara visione di politica industriale. Sono cruciali, invece, i modelli di collaborazione pubblico/privato con l’obiettivo di coinvolgere ricerca, università e istituzioni. In questo campo ci sono attori come che possono giocare un ruolo importante. Fra di loro vi è Cassa Depositi e Prestiti che è impegnata nel sostegno all’innovazione e ha investito più di 2 miliardi di euro in aziende di venture capital.
Proprio innovazione e tecnologia sono il volano di una radicale trasformazione del mondo economico presente e futura: l’uso dell’intelligenza artificiale (IA) rivoluziona oggi, e lo farà ancor di più in futuro, modelli di vita e di impresa. Gli europei sono stati i primi a dotarsi di un regolamento sull’IA. Ma la velocità della tecnologia impone anche alle regole di stare al passo: mentre le norme attuali funzionano per il passato, l’intelligenza artificiale del presente e del futuro richiede aggiornamenti continui. La rivoluzione in atto dell’Artificial General intelligence che punta alla parità universale con l’umano nei prossimi dieci anni pone anche importanti questioni etiche: un tema che non potrà più solo essere affrontato dai codici di autoregolamentazione e dalle buone pratiche delle aziende coinvolte, ma richiederà un intervento normativo degli Stati.
Un disordine internazionale sarà la cifra più probabile degli anni a venire e per affrontarlo sarebbero necessarie forti riforme del vecchio ordine o, in alternativa, maggiori tentativi di formazione di accordi generali. Finita l’era del Washington Consensus – contestato peraltro anche dall’interno – si va incontro ad un sistema molto più frammentato, in cui Stati Uniti e Cina saranno gli assi portanti di un nuovo assetto a varie velocità, contraddistinto dall’emergere delle medie potenze. In un tale quadro per l’Europa, che ha perso dieci anni di competitività, viene invocata un’autonomia strategica. Un’aspirazione che, secondo alcuni, cozza contro la realtà sia del settore della sicurezza – in cui la NATO è tornata preponderate – sia del settore tecnologico dove il divario è molto largo e dove mancano le economie di scala di cui dispongono invece Cina e Stati Uniti. E c’è, poi, chi saggiamente mette in guardia da un rischio non banale: perseguire in un certo modo l’autonomia strategica potrebbe indurre l’Europa verso l’autarchia.
In Europa serve volontà di cambiamento e maggiore sforzo in ogni ambito: ecco la ragione del recente Manifesto per un miglior funzionamento politico dell’UE firmato, tra gli altri, da personalità di livello assoluto come Giuliano Amato e Romano Prodi. Se è vero che l’Europa ha saputo reagire in modo solidale e solido alla pandemia e alla guerra in Ucraina, attraverso il buon funzionamento di un sistema multilivello con delega alla Commissione – come nel caso dell’acquisto dei vaccini – molto però c’è ancora da fare in diversi campi: è necessario dare spessore alla politica estera e di difesa e sicurezza comuni, oltre che lavorare per un miglioramento della governance politica, anche in vista di futuri allargamenti, e di quella economica relativamente al completamento del mercato interno e all’armonizzazione delle politiche fiscali, solo per citare alcuni degli obiettivi più urgenti.