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Costruire la transizione energetica

  • Venezia
  • 5 Ottobre 2024

        La transizione energetica si trova a uno snodo cruciale: le crisi geopolitiche degli ultimi anni si accompagnano a una crescente preoccupazione relativa al cambiamento climatico, i cui effetti sul territorio sono sempre più evidenti. In questo quadro la transizione diventa non solo necessaria, ma anche vantaggiosa. 

        Cambiare il paradigma energetico significa, infatti, garantire un futuro migliore all’economia e alla società, intervenendo su elementi importanti come l’autonomia strategica nel campo degli approvvigionamenti e i costi sanitari legati all’inquinamento (che in Europa è responsabile di 300mila morti premature l’anno). Significa anche intervenire sul costo dell’energia che tanto pesa su un’economia manifatturiera e priva di fonti fossili come l’Italia. Si tratta di un elemento così cruciale – e in grado di condizionare la competitività del Paese – da essere diventato oggi più rilevante rispetto a un indicatore classico come il costo del lavoro per unità di prodotto. 

        La transizione energetica richiede, in ogni caso, uno sforzo globale; eppure i diversi blocchi regionali presentano strategie diverse con risultati variabili. La Cina è sicuramente l’attore che più sta investendo nelle tecnologie abilitanti della transizione, mentre gli Stati Uniti possono far leva su una forte autonomia energetica determinata dall’estrazione domestica di gas. Gli investimenti americani sulla transizione energetica non sono dissimili come ordine di grandezza rispetto a quelli europei, ma l’eccessiva frammentazione dell’UE e le incertezze nella governance sembrano penalizzare il Vecchio Continente che risulta intrappolato in un pregiudizio: quello di essere l’attore globale che regola e limita, mentre gli altri innovano. 

        Eppure, il ruolo di standard setter che l’Occidente mantiene (con l’Europa in prima fila) resta un importante vantaggio competitivo. La Cina, ad esempio, ha recentemente seguito l’approccio di Bruxelles obbligando le proprie società quotate ad adottare requisiti sulla rendicontazione di sostenibilità comparabili a quelli già imposti dall’Europa. 

        La strategia europea in questo campo rappresenta un’opportunità anche per le imprese italiane, chiamate non tanto a ragionare nell’ottica della compliance, quanto piuttosto a cogliere opportunità per innovare radicalmente il proprio modello di business. In generale, il Paese deve mettere in campo uno sforzo maggiore e più coerente se vuole approfittare delle opportunità offerte dalla transizione energetica. Gli impegni presi in sede europea rischiano oggi di essere osteggiati da una pianificazione inadeguata, da norme contraddittorie e da un sistema di permitting che, non delineando un sistema chiaro di priorità nelle istanze presentate, ingolfa la capacità amministrativa e crea ritardi strutturali. 

        I necessari cambiamenti legislativi si devono accompagnare a mutamenti culturali. Accanto a una diffusa sindrome NIMBY (not in my backyard) che osteggia a livello territoriale la costruzione di nuove infrastrutture energetiche anche “verdi”, è presente un atteggiamento NIMTO (not in my terms of office) in cui diversi livelli di governo sembrano procrastinare decisioni strategiche. È necessario, invece, misurarsi anche con nuovi paradigmi e con la mutata sensibilità ambientale delle generazioni più giovani: i “nativi digitali” infatti sono spesso anche “nativi sostenibili”, determinati a rivoluzionare decisioni di vita e stili di consumo. Tali cambiamenti permeano anche il campo giuridico: nel 2022, infatti, la tutela dell’ambiente è entrata nella Costituzione italiana, “anche nell’interesse delle future generazioni”, come principio prioritario rispetto alla libertà di iniziativa economica. E la Corte Costituzionale, intervenendo sul cosiddetto Decreto Priolo, nel giugno 2024 ha riaffermato tale principio. 

        Questo, insieme a molti altri, è il segnale del cambiamento irreversibile innescato dalla transizione energetica. Ignorarlo e non governarlo – a livello europeo, nazionale e locale – significa perdere l’opportunità di trasformare tale processo, reso urgente dalla crisi climatica, in un vettore di sviluppo economico e sociale, capace di generare benefici duraturi per la collettività.