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Attività

A Western Digital Renaissance: drivers and boundaries

    • Venezia
    • 23 Ottobre 2015

          Dubbi non ce ne sono. Internet è oggi, e sarà in futuro, il driver dello sviluppo. Come lo è stata in passato l’automobile, con il suo indotto di infrastrutture, di aziende collegate e con il portato di nuove realtà sociali, cambio di abitudini e trasformazione di stili di vita. La rivoluzione digitale va però oltre: la dimensione della nuova macchina è, infatti, ontologica. Si riconosce che il nuovo driver ha forte capacità espansiva, ma non si è ancora capito quali ne possano essere i confini. Quel che è certo che non si possono applicare regole vecchie a un contesto nuovo: non si può forzare la realtà.

          In primo luogo Internet sta scardinando il concetto dello stato nazione: la ricchezza si sviluppa oltre il luogo di origine e la territorialità non è più un concetto determinante nella definizione della rete e del suo controllo. La digital disruption è operativa in campi quali finanza, banche, medicina, big data, sistema sociale. E provoca anche una devolution dell’autorità: succede con i governi e i parlamenti, con i capi religiosi e con l’autorità militare. Il sistema piatto, caratteristico della rete, provoca – per istituzioni che hanno sempre funzionato verticisticamente – difficoltà di gestione e perdita di potere.

          Se la sovranità vacilla, il cyberspazio potrebbe diventare uno spazio di battaglia – non magari una guerra visto che funziona ancora la deterrenza nucleare – dove gli stati cercano la loro posizione. Se la conoscenza è potere, a volte il mondo cyber può impattare sulla democrazia, con un forte rischio di dare vita ad uno stato di sorveglianza: lo hanno dimostrato, seppure in maniera diversa, il caso Snowdon e la fallita rivoluzione in Iran. Se la tecnologia porta disruption non sempre quest’ultima fa rima con democrazia, ma a volte con anarchia e, a volte, dittatura. Così come la digital disruption può enfatizzare l’estremismo ideologico: quello di Al Qaeda e ancor più l’Isis si nutrono della rete e nella rete per promozionare un fortissimo apparato di propaganda. Nel mondo arabo si è passati dai 40 milioni di utenti nel 2011 ai 100 di oggi. Una realtà che i dittatori caduti con le rivoluzioni arabe del 2011 dove i social media hanno avuto un ruolo moltiplicatore non avevano affatto capito.

          Ovunque la digitalizzazione è ormai irreversibile: in Italia, così come in Francia il 70% si informa su Internet. In Europa l’economia degli applicativi conta già 1,3 milioni di occupati e genera nel settore ICT 17 miliardi di fatturato che a tre anni saliranno a 70. Persistono peraltro concezioni diverse tra Stati Uniti ed Europa: per gli americani gli utenti sono consumatori, in Europa prevale la questione identitaria.

          L’Europa è in grave ritardo e le politiche sono molto frammentate. C’è chi suggerisce un cambio di prospettiva radicale: si consideri dunque come acquisito il digitale e si faccia pagare l’analogico. Sono poi in molti a supportare l’idea del mercato digitale europeo. La levatrice del nuovo ordine dell’era digitale dovrebbe essere, secondo alcuni, la capacità dei governi di coordinare le politiche di innovazione.

          Fatto di luci e ombre è il rapporto nel settore tra Europa e Stati Uniti. Si è innanzi tutto auspicato, in primo luogo da parte aziendale, una maggiore apertura del Trattato ai temi del capitolo digitale. Altro punto è quello di permettere ai dati di spostarsi liberamente, seppure nel rispetto della privacy. La recente decisione sull’impossibilità di vendere i dati anonimi colpisce le aziende americane. Peraltro lo scambio di dati tra i partner transatlantici è molto più alto rispetto a quello con l’Asia e l’America Latina. La Cina ha una visione strategica del suo futuro nel settore: 19 trilioni di dollari è la cifra che verrà investita anche in previsione della grande rivoluzione del 5G. Si tratta di un’opportunità anche per l’Europa, ma sarà necessario uno sforzo maggiore di armonizzazione della normativa che porti ad un avvicinamento tra  le due aree.

          L’era digitale impone cambiamenti rapidi e di fissare principi generali da cui poi far discendere le regole. In Europa, soprattutto negli ultimi anni, l’assenza di un quadro di regole base ha fatto sì che oggi buona parte della disciplina giuridica del settore viene demandata al comportamento spontaneo oppure a interventi della Corte di Giustizia europea che ha svolto, secondo molti, una funzione di supplenza. Per il futuro viene proposto di adottare un approccio improntato alla teoria del laissez faire . C’è  chi preferirebbe un contesto più regolamentato, sottolineando come siano stati gli standard normativi come quelli dell’interoperabilità e modelli di business condivisi come il roaming a determinare successi ICT del passato. Spetta in ogni caso alla politica accelerare su questo fronte, magari immaginando un accordo “multistakeholder” che metta insieme governi, istituzioni, aziende e società civile.

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