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Attività

Il nuovo imprenditore: internazionale, aperto al rischio, capace di comunicare

    • Milano
    • 15 Giugno 2014

          In un contesto sempre più competitivo e complesso, l’imprenditore deve saper sviluppare una mentalità e una professionalità aperte al rischio e capaci di indirizzare e governare i processi di globalizzazione, preservando al contempo l’identità della propria impresa. Ci si muove, quindi, verso un nuovo paradigma imprenditoriale che richiede anche una nuova forma di leadership che si basa sulla fiducia, sulla condivisione, su nuovi metodi di circolazione dell’intelligenza individuale e del carisma personale. Questa “leadership convocativa” deve intercettare e coinvolgere i talenti e le vocazioni individuali nell’ambito di una visione che ispira e motiva le organizzazioni a tutti i livelli.

          Paradossalmente questo nuovo paradigma si fonda non su certezze o su percorsi predefiniti, ma sull’errore, sulla capacità di rischiare e anche di fallire. L’imprenditoria italiana ha, infatti, mostrato negli ultimi decenni una forte propensione alla conquista di comode posizioni di rendita, cessando in molti casi di innovare e di tentare nuove strade visionarie o “eretiche”. Si sono, dunque, persi quell’ambizione e coraggio che avevano consentito il miracolo economico italiano del dopoguerra e che rappresentano, tuttora, forse il principale ingrediente della vitalità del capitalismo anglosassone. L’elogio dell’errore non deve peraltro tradursi in un atteggiamento auto-assolutorio, ma rappresentare uno stimolo a migliorarsi e una costruttiva opportunità di apprendimento e crescita. In questo senso deve essere un errore programmato, previsto e da metabolizzare, perché, da un lato, come sosteneva Popper, non si impara mai da errori troppo grandi, ma dall’altro dall’errore individuale possiamo ricavare l’apprendimento collettivo.

          Delle molteplici attività di impresa in cui l’errore deve essere ricercato e gestito, la più rilevante è quella dell’innovazione di processo e di prodotto. L’imprenditore italiano dovrebbe recuperare il gusto e la spinta a innovare, creando volutamente e metodicamente discontinuità all’interno della propria impresa, ma anche all’esterno, nei rapporti con concorrenti, clienti e fornitori. Nuovi paradigmi di condivisione, come le piattaforme di open innovation, emergono e consentono di superare i limiti dimensionali tipici dell’impresa italiana. Anche perché un’azienda competitiva non può esserlo da sola. In questo contesto, sempre più il dualismo dell’industria italiana che rileva non è tanto quello della grande impresa verso la piccola, ma piuttosto quello dell’impresa aperta al confronto internazionale che si contrappone a chi rifugge la competizione.

          In coerenza con questo modello aperto d’impresa, anche la governance deve essere “aperta” con manager che devono trasformarsi in imprenditori. È necessario, poi, disegnare una filiera produttiva e commerciale che, pur mantenendo il legame con il territorio d’origine, sappia aggregare organizzazioni e mercati distanti sul piano geografico e culturale. Operare con flessibilità fuori dai confini nazionali, anche osservando le esperienze e gli errori già maturati, diventa elemento essenziale su cui costruire nuovi percorsi di crescita per l’economia italiana.

          Affinché le loro organizzazioni possano progredire, i leader d’impresa devono sapersi muovere al meglio in un contesto internazionale veloce e strutturalmente incerto, coordinando reti di risorse umane sempre più qualificate, multiculturali, orientate all’innovazione. Sotto questo profilo, la “cultura politecnica” tipicamente italiana che raccorda le due anime – umanistica e scientifica – della nostra identità, costituiscono un patrimonio che non è ancora stato sfruttato a pieno da manager e imprenditori del nostro Paese.

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