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Attività

The economics of climate change: a joint agenda between US and Europe

    • Incontro in modalità digitale
    • 7 Aprile 2021

          Le politiche per il contrasto e la gestione del cambiamento climatico sono al centro dei piani per la ripresa economica post-pandemia, e dunque anche dei rapporti transatlantici, in una fase di nuove opportunità per la cooperazione euro-americana. Lo slogan adottato dalla campagna elettorale di Joe Biden nel 2020 – “Build back better” – può considerarsi un approccio complessivo molto adatto alle circostanze internazionali del 2021, con il tentativo in corso di rilanciare gli Accordi di Parigi del 2015 e una generale convergenza, in senso sostenibile, delle politiche pubbliche con le scelte di investimenti del settore privato e le stesse preferenze dei consumatori (quantomeno nelle economie più avanzate).

          Questi i punti principali emersi dalla discussione:

          • Tutti i piani contro i cambiamenti climatici devono tenere conto dei dati sullo stato dell’atmosfera e sulla loro persistenza: le politiche che realisticamente si possono perseguire vanno intese come interventi di “mitigazione” del problema già accumulato in molti decenni, per cui si potrà soltanto gestire una riduzione graduale (per quanto auspicabilmente rapida) delle emissioni. Si tratta, dunque, di una sfida di medio e lungo termine, da intraprendere però immediatamente, che richiede politiche e investimenti in un’ottica anche lungimirante. Questa situazione ha implicazioni economiche, politiche, e regolamentari di grande complessità per il tentativo di bilanciare costi e benefici.
          • Sempre in termini globali, va tenuto conto che nei prossimi anni si dovrà anche garantire l’accesso alle fonti energetiche per una popolazione mondiale ancora in aumento e con prospettive di crescita economica comunque significative: ciò pone enormi questioni di distribuzione delle risorse energetiche. Soprattutto nel continente africano ma anche in parte di quello asiatico, la priorità dell’accesso – anche rispetto alla sostenibilità ambientale – è del tutto evidente e non può essere dimenticata nel formulare piani su scala globale. Un’importante questione geopolitica riguarda anche alcune materie prime cruciali per le tecnologie verdi, tra cui le cosiddette “terre rare”, che non sono disponibili ovunque e anzi sono concentrate in poche aree del mondo, con il rischio di generare una forte competizione per risorse scarse.
          • Gli interventi necessari – come dimostrano i vari piani nazionali, compreso quello che sta mettendo in campo l’Italia – sono molto vasti e diversificati, andando dall’elettrificazione al risparmio energetico, dal più efficiente utilizzo delle risorse idrogeologiche al miglioramento delle infrastrutture, con uno sforzo che deve essere sia politico-regolamentare, sia culturale per i comportamenti dei cittadini, sia economico per il ruolo delle imprese.
          • Dalla prospettiva americana, le tre priorità di policy che sono state annunciate dall’amministrazione Biden sono tutte in certa misura legate all’agenda “verde”: superare l’epidemia e facilitare la ripresa economica; lanciare una grande campagna infrastrutturale ispirata al principio “build back better”; affrontare direttamente la sfida climatica, con “umiltà e ambizione”, partendo dalla constatazione che il decennio fino al 2030 potrà rivelarsi decisivo per invertire le tendenze attuali. In questo settore i primi passi dell’inviato speciale del Presidente per il clima, John Kerry, sono stati rivolti a mobilitare la cooperazione dei partner europei e asiatici, ma anche dei Paesi del Golfo e della stessa Cina – pur tra le ben note difficoltà dei rapporti con Pechino.
          • Allargando lo sguardo all’impostazione delle politiche economiche, il quadro generale che emerge da Washington è più propizio che nel recente passato, ad esempio alla luce della proposta avanzata recentemente dal Segretario al Tesoro, Janet Yellen e precisata dal Presidente Biden, per uno standard internazionale comune sulla tassazione delle grandi imprese (minimum corporate tax). È  chiaro infatti che la transizione verde necessita di massicci investimenti e dunque anche di risorse pubbliche e di un contesto fiscale adeguato per sviluppare i giusti incentivi.
          • Sul versante europeo, Bruxelles sta lavorando per l’obiettivo della carbon neutrality al 2050, il che implica una maggiore ambizione verso il 2030 come primo obiettivo intermedio. Si sta poi lavorando agli investimenti, sia nell’ambito del pacchetto Next Generation EU che con strumenti ad hoc. Ci sono poi varie proposte in via di valutazione tra cui il “Carbon border adjustment mechanism”, che certamente andranno discusse di concerto con i maggiori partner internazionali della UE. La sfida principale sarà procedere con la massima rapidità, pur garantendo il più ampio i consenso possibile a livello globale – cosa che ovviamente richiederà notevole creatività diplomatica a fronte delle resistenze da parte di grandi economie emergenti, come ad esempio l’India oltre alla Cina.
          • Sia da parte americana che europea, si riconosce che, visto il suo peso economico aggregato, il G20 è un foro cruciale per fare progressi sul piano del coordinamento internazionale. Oltre alla COP, formati multilaterali più agili come appunto il G20, e lo stesso G7, sono importanti per mettere a frutto la convergenza sugli obiettivi e sulla loro urgenza, cercando compromessi ragionevoli sulla condivisione degli impegni, il loro carattere vincolante, ed eventuali meccanismi di compensazione per i Paesi meno avanzati o per settori che potrebbero essere particolarmente danneggiati da alcuni aspetti della transizione.
          • Il “fattore Cina” è comunque centrale – visto che le emissioni cinesi sono superiori a quelle degli Stati Uniti e della UE combinate. È imperativo raggiungere accordi-quadro per coinvolgere in ogni caso la Cina negli sforzi in atto, tenendo conto anche delle aspettative generate nel Paese e in varie altre economie emergenti dalla forte crescita dei decenni di forte globalizzazione. Il ruolo della Cina ricorda peraltro che le filiere produttive globali sono strutturate in parte per gestire l’impronta ambientale delle produzioni più inquinanti spesso a vantaggio delle economie più avanzate, con squilibri accumulati per decenni che oggi diventano inevitabilmente un oggetto (problematico) dei negoziati sulla transizione verde.
          • Vi sono, intanto, dati e trend molto positivi provenienti dal settore privato:

          –        Importanti progetti concreti sono realizzabili subito con tecnologie già mature;

          –        Le risorse finanziarie sono disponibili, come anche la platea di acquirenti sul mercato (disposti a sopportare costi leggermente più alti per avere prodotti più sostenibili);

          –        Esiste un vero allineamento globale (che si riflette in molte politiche pubbliche) sulle priorità comuni per perseguire la carbon neutrality, nonostante alcune persistenti divergenze sulla tempistica e la distribuzione dei costi per la transizione.

          • La combinazione di questi fattori consentirà anche l’accelerazione dell’innovazione tecnologica che renderà progressivamente più convenienti gli investimenti, innescando un vero circolo virtuoso. È  altrettanto vero, tuttavia, che circa la metà delle tecnologie che si prevede siano necessarie per raggiungere la neutralità non sono ancora mature: ciò significa appunto che sono indispensabili maggiori investimenti e continui sforzi di ricerca e sviluppo. Il settore privato è comunque assolutamente decisivo per sviluppare il mix di tecnologie necessarie alla transizione sostenibile, dalle varie fonti rinnovabili già in fase avanzata di adozione fino al carbon capture&storage e allo sviluppo dell’idrogeno.