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Nucleare: meglio l’offshore, più economico e sicuro. Intervista a Jacopo Buongiorno

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    • 26 Gennaio 2015
    • Gennaio 2015
    • 26 Gennaio 2015

    L’incidente di Fukushima non ha messo in crisi il nucleare, anzi: il numero di impianti in costruzione nel mondo sta raggiungendo livelli mai visti in precedenza. L’accordo tra Stati Uniti e India di questi giorni dimostra un rinnovato interesse per questa forma di approvvigionamento energetico. Quanto avvenuto in Giappone, però, pone ancora interrogativi sulla sicurezza in caso di gravi catastrofi naturali: anche per questo un team del MIT, guidato da Jacopo Buongiorno, sta studiando la possibilità di collocare i reattori su piattaforme offshore. Il loro posizionamento in alto mare non solo semplificherebbe il processo di costruzione, ma aumenterebbe anche la resistenza degli impianti a terremoti e tsunami.

    Fukushima, ovvero il “de profundis “ per il  nucleare in Europa?
    Oggi in Europa la situazione del nucleare presenta più aspetti positivi che negativi. Certo la Svizzera ha reagito a Fukushima decidendo di non costruire nuovi impianti e di aspettare che gli attuali terminino il proprio ciclo di vita. Anche la Germania ha preso una strada simile, ma il phase out era già stato annunciato ai tempi del governo Schröder e solo rimandato nel tempo da Angela Merkel. Tuttavia, con l’eccezione di questi due Paesi, in Europa ci sono sviluppi importanti, soprattutto nel Regno Unito, che ha un parco di reattori già abbastanza rilevante e prevede di espanderlo ulteriormente.

    Un altro Paese che sta costruendo nuovi impianti è la Finlandia; e poi non dobbiamo dimenticare che la Francia viaggia per il 75% ad energia nucleare, il Belgio e la Svezia sono su un livello del 40-50% e quote importanti si registrano in tutta l’Europa dell’Est. Questo avviene nonostante la grande enfasi che diversi Paesi europei hanno posto sulle rinnovabili; il fotovoltaico e l’eolico sono sì importanti, ma quando superano una quota del 20% nella generazione di energia, creano problemi alla gestione della rete, per via della loro natura intermittente. Richiedendo, comunque, l’istallazione di generatori di backup, generalmente a gas.

    In ogni caso, nonostante i passi avanti in Europa, la vera scommessa sul nucleare è nel resto del mondo. Da quel punto di vista siamo su livelli mai visti in precedenza, in quanto a numero di nuovi impianti in costruzione.

    E, dunque,dove si costruisce di più?
    La diffusione dell’energia nucleare si concentra in Estremo Oriente e nel Golfo Persico: India e  Vietnam certamente, ma è la Cina –  che da sola realizza circa il 40% dei nuovi impianti –il mercato più importante in virtù dei propri immensi bisogni energetici, soddisfatti attualmente, per quanto riguarda l’elettricità  al 80% con il carbone.

    E poi il Medio Oriente: per quanto strano che nazioni così ricche di petrolio investano sul nucleare, i Paesi del Golfo preferiscono vendere i propri idrocarburi sul mercato internazionale e utilizzare l’energia atomica per soddisfare il fabbisogno interno. Per questo gli Emirati stanno costruendo nuovi impianti per 5 GigaWatt e l’Arabia Saudita per 17 GW.

    Infine, nonostante il grande successo dello shale gas, si vedono progressi anche negli Stati Uniti, soprattutto in quegli stati dove il mercato dell’energia è regolato e offre sicurezza agli investitori. Il fatto che in America si stiano costruendo nuovi reattori è di per sé un passo avanti storico, visto che il più recente impianto nucleare americano è stato completato nel 1996.

    Quali vantaggi potrebbero avere gli impianti offshore che state studiando al MIT?
    Abbiamo iniziato gli studi sulla possibilità di realizzare reattori offshore un anno e mezzo fa e al momento siamo ancora in una fase concettuale. Tuttavia, trattandosi della combinazione di due tecnologie esistenti e consolidate – i reattori nucleari raffreddati ad acqua e le piattaforme petrolifere – il rischio tecnologico è molto basso. I vantaggi sono consistenti sia dal punto di vista economico sia da quello della sicurezza. L’idea, infatti, è costruire l’impianto direttamente in un cantiere e di trasportarlo come un unico modulo, un processo capace di garantire più velocità e maggiore certezze nell’avanzamento dei lavori rispetto alla realizzazione di un reattore a terra.

    Dal punto di vista della sicurezza, sono tre i punti importanti: un impianto galleggiante non è soggetto ai terremoti e, essendo attraccato dai 10 ai 20 km offshore, può contare su una profondità delle acque di almeno 100 metri, il che elimina il pericolo associato agli tsunami. In più si ha accesso diretto all’acqua dell’oceano, con scambiatori di calore che permettono di raffreddare il reattore indefinitamente senza intervento esterno. Così si riducono al minimo le probabilità di incidenti.

    Sicurezza, un problema risolto con l’offshore?
    Al momento, il tallone d’Achille più importante del progetto è quello della sicurezza in caso di attacchi esterni. Un impianto offshore, rispetto a un impianto terrestre, è esposto anche a un possibile attacco sottomarino. Il problema non si risolve solo creando barriere sott’acqua per evitare intrusioni; il rischio più difficile da fronteggiare è l’attacco realizzato attraverso una grossa nave che va a collidere con la piattaforma. Per ovviare anche a questo pericolo stiamo disegnando l’impianto in modo da proteggere il modulo reattore in caso di urto. L’idea è di posizionare il modulo, compresa la sua struttura di contenimento, a una profondità tale da renderlo irraggiungibile anche alla più grande nave in circolazione.

    Oltre al problema sicurezza c’è poi bisogno di creare un’infrastruttura per la costruzione di questi impianti, anche se esistono negli Stati Uniti numerosi cantieri navali già esperti nella costruzione e nel decommissioning di portaerei e sottomarini nucleari. Un altro fattore è l’accettabilità sociale di un impianto  offshore: gli incidenti sono poco probabili, ma il fatto che possa esserci una contaminazione del mare suscita ancora molte resistenze. In realtà gli studi ci dicono che piccole fughe di radioattività nell’oceano si diluiscono e si disperdono molto velocemente.

    Jacopo Buongiorno è Professore Associato di Impianti Nucleari al Massachusetts Institute of Technology (MIT) dal 2004. Dopo una laurea in Ingegneria Nucleare presso il Politecnico di Milano e un Dottorato di Ricerca in Ingegneria Nucleare al MIT, ha lavorato al Laboratorio Nazionale dell’Idaho (INL), dove ha diretto il programma Generazione IV per lo sviluppo del reattore ad acqua sopracritica negli Stati Uniti.