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Fondi strutturali, un’occasione da non perdere. Intervista a Simona Milio

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    • 19 Giugno 2013
    • Giugno 2013
    • 19 Giugno 2013

    “Mettere a sistema tutta la conoscenza che esiste sul territorio”. Questa secondo Simona Milio, Direttore della Social and Cohesion Policy Unit alla London School of Economics, la ricetta per utilizzare al meglio i fondi strutturali che l’Europa mette a disposizione.
    E un buon utilizzo da parte dei grandi destinatari, come l’Italia – spiega Milio al sito di Aspen – é fondamentale per opporsi allo svuotamento della politica di coesione, invocato da più parti.

    La crisi in Europa sta imponendo un contenimento della spesa pubblica a tutti i livelli.
    Sono in discussione anche i fondi strutturali? La politica di coesione può costituire un elemento di rilancio per l’economia?

    La politica di coesione crea un dibattito accanitissimo, animato da stati membri contrari all’esistenza di questa voce che assorbe il 35% del bilancio dell’Unione Europea. Il Regno Unito ha proposto – insieme a Lussemburgo, Austria e Belgio – l’idea di ri-nazionalizzare le politiche regionali. Si tratta di una richiesta che mina uno dei principi dell’Unione: la solidarietà; ma questo avviene perché nel breve termine non si riescono a vedere gli effetti positivi delle politiche di coesione.
    Sta diventando quindi fondamentale capire qual è l’impatto dei fondi strutturali nel contesto della crisi. A questo proposito la Commissione ha appena pubblicato un report da cui emerge che i fondi sono un valore aggiunto e, anzi, rappresentano attualmente un’ancora di salvezza per molti Paesi. Anche perché la crisi crea una riduzione dei fondi pubblici disponibili nelle casse degli stati membri e la politica di coesione diventa uno dei pochi strumenti disponibili per stimolare l’economia. La Commissione europea ha rivelato infatti che 2,4 milioni di persone dal 2007 ad oggi hanno trovato lavoro grazie al Fondo sociale europeo. Leggendo questi numeri si riesce a vedere come, se utilizzata in maniera efficace ed efficiente, la politica di coesione possa davvero avere un impatto notevole.

    In Italia si parla spesso della necessità di un miglior utilizzo dei fondi. Quali sono i passi da fare?
    L’Italia, fino alla programmazione 2000-2006, era il secondo destinatario dei fondi dopo la Spagna. Con l’allargamento a est dell’Unione il maggior destinatario è diventata la Polonia, ma rimaniamo comunque uno dei Paesi che ricevono più risorse. Per gestire al meglio i fondi strutturali è necessario mettere a sistema più conoscenze: certo, ci vuole anche un focus sulla qualità più che sulla quantità della spesa, ma quello di cui c’è maggiormente bisogno è la collaborazione sistemica fra tutte le istituzioni pubbliche e private coinvolte nel processo.
    La Commissione sta spingendo tantissimo per il partenariato fra soggetti. A questo proposito Fabrizio Barca una decina di anni fa disse una cosa ancora attuale: il partenariato è fondamentale perché i fondi strutturali, per essere implementati, hanno bisogno di conoscenza. La conoscenza non si può trasferire facilmente perché certe volte è radicata nei diversi livelli del territorio, sia verticalmente che orizzontalmente. La Commissione incita a fare proprio questo: mettere a fattor comune tutta la conoscenza che esiste sul territorio per evitare interventi calati dall’alto, favorendo piuttosto quelle misure che rispondono alla reali necessità locali. E infatti la politica di coesione europea si sta muovendo da un approccio settoriale a un approccio sempre più territoriale.

    Gli enti locali italiani sono attrezzati per questo cambio di indirizzo?
    La parte più consistente dei fondi è spesa dalle Regioni e, secondo me, quello che ancora manca in Italia – lo sottolineo ancora una volta – è la capacità di mettere insieme tutti gli attori interessati allo sviluppo di un territorio, superando rivalità e divisioni di parte. Inoltre non dimentichiamo che una gestione ottimale della politica strutturale ha bisogno di un certo periodo di apprendimento. Troppo spesso, invece, nelle Regioni italiane un cambio di governo coincide con un rinnovo di dirigenti e tecnici, impedendo la costruzione di competenze durature. Ci vuole piuttosto integrazione degli interventi e un maggior dialogo che superi le appartenenze politiche. Si eviterebbero così anche duplicazioni che portano a problemi nell’implementazione degli interventi. Il Fondo sociale europeo, ad esempio, dovrebbe formare persone laddove il Fondo europeo di sviluppo regionale crea le condizioni per assumere nuovi lavoratori. È inutile dire che l’assenza di coordinamento porta a sprecare gli investimenti.
    Se prendiamo ad esempio il Fondo Sociale Europeo, le proposte d’intervento nel campo della mobilità, della formazione, dell’utilizzo e dell’attrazione di capitale umano finalizzate a far crescere le aree più arretrate sono fondamentali per il rilancio dell’economia. Ma perché questi interventi siano efficienti devono inserirsi in una strategia di sviluppo di lungo periodo del Paese, che crei le strutture per formare e accogliere il capitale umano, puntando a sviluppare le potenzialità dei territori e penetrando in settori nuovi e competitivi. Quello che manca negli interventi, molto spesso, è l’essere messi a sistema; il far parte di un disegno di sviluppo del Paese coerente, coeso e di lungo periodo.  Lasciate isolate e non integrate, queste azioni sembrano replicare purtroppo l’idea degli interventi a pioggia: piccoli e non abbastanza mirati da innescare il cambiamento.

    Come favorire lo scambio di idee e di pratiche all’interno dei Paesi europei? È possibile attrarre in Italia studiosi ed esperti internazionali di fondi strutturali?
    Tenendo alcuni corsi all’Università di Palermo ho proposto agli studenti più volenterosi di venire a fare pratica a Londra; così negli anni abbiamo costruito un piccolo network che ci aiuta a mettere a sistema le competenze di ognuno. Ritengo infatti che l’unico modo per far parlare fra di loro l’italiano all’estero e l’italiano in Italia sia quello di farli interagire all’interno di un disegno sistemico.
    E questo può, perché no, anche riguardare l’implementazione dei fondi strutturali. Del resto nella circolazione di cervelli verso l’Italia una delle maggiori barriere è la lingua. Uno studente della London School of Economics che vuole studiare i fondi strutturali trova a Palermo o a Potenza un’amministrazione – lo dico perché ci ho lavorato – ben preparata e con una buona expertise sui fondi strutturali. Eppure tutta la documentazione è in italiano. Dovremmo prendere spunto da quei Paesi – penso alla Croazia cui di recente abbiamo fatto un capacity building training in vista dell’ingresso nell’UE – dove la produzione dei documenti programmatici e strategici su questi temi è bilingue. Una strada è quella di richiedere nelle amministrazioni una maggior conoscenza dell’inglese: questo ci aiuterebbe a creare un ponte fondamentale per poter comunicare con gli altri civil servant europei.